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 2015  novembre 01 Domenica calendario

Elogio del ritardo. François Weyergans spiega l’arte della procrastinazione: «Mentre non si fa quel che si dovrebbe, tutto può succedere: nuove idee, nuovi desideri... Gli orari sono utili per non perdere il treno, ma perdere il treno può essere l’inizio di qualcosa di inatteso»

François, che ama molto le donne e poco la fedeltà, cerca di parlare finalmente al padre Franz, grande e rigido scrittore cattolico cantore della sacralità del matrimonio. Vuole capire «come facevamo a intenderci così bene quando eravamo d’accordo su così poche cose?». François rompe un lungo silenzio, prova a scrivere un libro dedicato al padre, ma lo fa vent’anni dopo la sua morte e ce ne mette cinque a finirlo. Comincia così Franz e François, il bellissimo romanzo che François Weyergans pubblicò in Francia nel 1997 e che in Italia esce per la casa editrice L’orma il 5 novembre, dopo 18 anni. Con Weyergans non bisogna mai avere fretta.
«Per cominciare un nuovo libro bisogna accettare di entrare nella propria memoria come in una vasca da bagno troppo piena», dice. Nel 2005 Weyergans vinse il Goncourt con Tre giorni da mia madre (Gaffi), racconto di un autore che non riesce a scrivere Tre giorni da mia madre. Consegnò per davvero il manoscritto con molti anni di ritardo, così come in ritardo, nei suoi 74 anni di vita, Weyergans ha pagato le bollette, scritto al fisco chiedendo ulteriori dilazioni, preso posto all’Académie Française: il 16 giugno 2011, ventisette mesi dopo l’elezione, lo scrittore e cineasta si presentò infine al cospetto dei colleghi Immortali sotto la cupola del Quai Conti, a Parigi. La solenne cerimonia in suo onore cominciò come previsto alle 15, lui arrivò un quarto d’ora dopo. Il capolavoro di una vita.
Signor Weyergans, i suoi personaggi e lei stesso siete dei virtuosi della procrastinazione. Come mai?
«Non è tanto la sindrome della pagina bianca, è piuttosto il contrario: troppe idee, troppe suggestioni, troppa ricchezza. È difficile mettere ordine. Nel cinema, e nella letteratura, il momento decisivo è il montaggio».
Perché rimandare sempre?
«Più che rimandare, si tratta di vivere fuori da ogni obbligo di orario. I miei personaggi si permettono questo lusso. E io propongo questo genere di vita ai lettori. Può essere molto angosciante vivere senza orari e senza scadenze. Alcuni non riescono a sopportarlo, altri lo vivono come un investimento sulla loro angoscia».
È il suo caso? Procrastinare è una fonte di creatività?
«Mentre non si fa quel che si dovrebbe, tutto può succedere: nuove idee, nuovi desideri... Gli orari sono utili per non perdere il treno, ma perdere il treno può essere l’inizio di qualcosa di inatteso. Consegnare un lavoro all’ultimo minuto, o ancora dopo, significa lasciare l’altro nell’ansia, può essere una forma di sadismo. Ma quando si rispettano le scadenze si rinuncia forse a idee importanti che apparirebbero in seguito. Essere in ritardo poi è un modo di verificare fino a che punto gli altri vi sopportano, vi aspettano, vi amano; è una cosa infantile senza dubbio. C’è anche una forma di godimento a riuscire a fare all’ultimo qualcosa a cui si pensa e a cui ci si prepara da tempo. E dire che a scuola ero sempre il primo a consegnare il tema. Avevamo quattro ore ma io dopo un’ora e mezza mi alzavo, tra gli”ohhh” dei compagni. E prendevo sempre 19/20! Dopo il liceo in effetti le cose si sono complicate».
Nel romanzo lei usa i veri nomi di battesimo di suo padre e suo, Franz e François. Quindi è tutto vero?
«Le dirò che all’insopportabile termine oggi di moda autofiction preferisco autoscontro. È curioso che persone mai viste, che non mi incontreranno mai, vogliono che io corrisponda ai miei personaggi. Ho scritto la vita immaginaria di un monaco copto nel deserto nel IV secolo dopo Cristo e mi hanno detto:”Questo monaco, è proprio lei!”. La storia di un monaco che non sapeva più perché si era rifugiato nel deserto e che aveva dimenticato l’esistenza di Dio...».
Ma i nomi sono gli stessi.
«I nomi di battesimo sono gli stessi, il cognome cambia, da Weyergans a Weyergraf. Due sillabe vere su tre. Potremmo dire che due terzi è la proporzione tra realtà e finzione nei miei romanzi».
Insomma, lei ci marcia.
«Certamente. Anni fa ho passato un pomeriggio con Saul Bellow, parlavamo di Herzog, la moglie lo ha lasciato per andare a vivere con un altro uomo e Herzog vede dalla finestra il rivale dare la mano a sua figlia. Anche io non mi sono trattenuto e ho chiesto a Bellow: “Quella scena l’ha vissuta davvero?”. Ricordo il suo sguardo pieno di profonda tristezza, anche un po’ di disprezzo, come se mi dicesse “ma insomma, ancora non ha capito che non è importante”. Un giorno ero in tv da Bernard Pivot e mi ha detto “allora è lei il personaggio”. Ho pensato, “se gli spiego che non è esattamente così spreco i pochi minuti che ho a disposizione”, quindi ho detto di sì. E quando ho vinto il Goncourt “Paris Match” ha voluto pubblicare due pagine di fotografie di me e mia madre assieme e mi sono detto “ma sì, chi se ne importa, se vogliono credere che sia tutto autobiografia lo credano”».
Com’è andata quando dopo mesi e mesi si è presentato finalmente all’Académie Française, ed è riuscito ad arrivare in ritardo anche lì?
«Finì in prima pagina sul “Figaro”, il mio edicolante il giorno dopo si complimentò: “È arrivato in ritardo anche tra gli Immortali, fantastico!”. Ancora oggi all’Académie c’è chi pensa che lo abbia fatto apposta».
Non c’era modo migliore per alimentare la sua leggenda.
«Eppure non lo feci apposta, non avrei i nervi così saldi. No, ero al Trocadéro e hanno mandato una macchina a prendermi, e l’autista ha preso gli Champs Elysées bloccati dal traffico, gli ho suggerito di imboccare la corsia preferenziale ma lui non voleva, temeva di prendere la multa. Insomma, arrivato vicino all’École des Beaux Arts dico all’autista di farmi scendere e mi metto a correre. Ma l’uniforme dell’Académie Française è complicata sa, c’è la giacca verde, lo spadino... Correvo e lo spadino mi sbatteva sulle gambe, la gente si fermava, i turisti pensavano che stessi girando un film comico in costume. Alla fine sono arrivato, meno male che Erik Orsenna aveva già cominciato a leggere il suo discorso in mio onore, mi ha permesso di prendere fiato prima di attaccare con il mio».
Che importanza ha avuto nella sua vita la psicoanalisi con Lacan?
«Ci sono andato da ragazzo, per curiosità intellettuale. Ci vedevamo anche tre o quattro volte alla settimana, io gli dicevo “lei costa molto caro” e lui mi rispose “non si preoccupi, tutto questo le sarà rimborsato più tardi”. Quando ho vinto il Goncourt mi sono detto “però, il vecchio Lacan aveva ragione”. È stata un’esperienza molto appassionante. Ma anche Lacan è stato fortunato ad avere sotto mano un tipo come me».