Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2015
L’inatteso trionfo di Erdogan in Turchia: una buona notizia per la stabilità di una regione strategica, ma il prezzo da pagare per la sua collaborazione nelle crisi mediorientali è ogni giorno più alto
Europa e Stati Uniti non festeggiano la vittoria di Erdogan ma tirano cinicamente un sospiro di sollievo: con una leadership forte ad Ankara, questo è il ragionamento, la Turchia evita l’instabilità ed è forse più facile negoziare con lui che non con una coalizione di partiti litigiosa, anche se ovviamente ogni giorno si alza il prezzo della sua riluttante collaborazione. Ma se gli europei vogliono stabilità e un nuovo guardiano sul Bosforo c’è già un costo evidente: adeguare gli standard democratici dell’Unione a quelli di Erdogan.
Prima di concedere la base aerea di Incirlik agli Usa per combattere il Califfato, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha voluto mano libera contro la guerriglia curda del Pkk e per continuare ad accogliere i rifugiati dalla Siria ha ottenuto che il cancelliere tedesco Angela Merkel venisse in Turchia promettendo soldi e la riapertura del negoziato di adesione all’Ue. Al vertice sulla Siria si è piegato all’ipotesi che Assad resti in sella per un periodo transitorio: ma cosa chiederà in cambio adesso?
Eppure questa è sempre stata la forza della Turchia, da quando la Nato accettava senza battere ciglio la dittatura dei generali kemalisti: sfruttare la rendita della sua posizione strategica sul fianco sud-orientale dell’Alleanza. Era così ai tempi della guerra fredda quando rappresentava l’antemurale dell’Urss, lo è oggi come ultimo bastione di fronte alla disgregazione degli stati mediorientali e alle ondate di profughi dal Levante.
Le considerazioni geopolitiche non dovrebbero però occultare altri aspetti dell’Erdoganismo che non corrispondono certo ai criteri dell’Unione europea: i rapporti ambigui con l’Isis, la repressione delle minoranze come i curdi e gli ostacoli sempre più alti posti alla libertà di stampa. Argomenti assai critici sottolineati anche dagli osservatori dell’Osce che hanno definito queste elezioni “libere e corrette” dal punto di vista formale ma fortemente condizionate dall’assenza di sicurezza in molte zone curde e dai limiti evidenti affrontati nella campagna elettorale dai partiti di opposizione, oscurati sui media e nelle piazze.
Con un mix di iper-nazionalismo, che ha sottratto voti ai Lupi Grigi, e populismo islamico, facendo leva sulle paure della Turchia anche dove il partito filo-curdo Hdp raccoglie consensi, il partito islamico Akp di Erdogan ha celebrato la sua rivincita sulle elezioni del 7 giugno scorso, riconquistando una maggioranza assoluta salutata da mercati in ascesa. Gli mancano ancora i seggi per modificare la costituzione ma di fatto lui si comporta e agisce come fosse il capo di una repubblica presidenziale.
Perché Erdogan ha stravinto contro tutti i sondaggi? Ha fatto credere, a torto o a ragione, che la Turchia versa in stato di emergenza, che è sotto attacco: dentro, da parte delle strutture “parallele” dell’ex amico l’Imam Fetullah Gulen e della guerriglia del Pkk; fuori, dalla minaccia che si possa creare ai suoi confini uno stato curdo sulle macerie della Siria, che lui stesso ha contribuito a destabilizzare facendo passare migliaia di jihadisti anti-regime.
Ma tutto questo non basta a spiegare il trionfo del “Sultano”. Erdogan, dal 2014 primo presidente eletto con il voto popolare diretto, è colui che rappresenta meglio di chiunque altro l’affermazione della media e piccola borghesia conservatrice musulmana dell’Anatolia, di quella gran parte del Paese per decenni esclusa dai laici repubblicani dalle stanze del potere. Difficile per questa Turchia, trasformata dall’Akp in nuovi ceti affluenti, voltargli le spalle. Erdogan rimane il simbolo di una sorta di peronismo all’islamica che non ha finito la sua lunga corsa.