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 2015  novembre 03 Martedì calendario

106 udienze, 46 imputati, 250 testimoni: giovedì nell’aula bunker di Rebibbia inizia il processo relativo all’inchiesta Mafia Capitale. Breve riepilogo dello scandalo che ha travolto Roma

Di solito i film e le fiction arrivano molto dopo i processi. Ma nella Roma dell’eterno (avan)spettacolo che fa naufragio persino sul suo stesso palcoscenico imbrattato di corruzione, disonore e cipria, accade il contrario. Massimo Carminati, detto Er Cecato, sta da gran tempo in gattabuia con la doppia mandata del 416 bis, l’associazione mafiosa, ma sta pure già in sala cinematografica con il suo alter ego il Samurai, indossando per sovrappiù la faccia spampanata dei Cesaroni e una fissità da nera commedia che neanche la pioggia riesce più a scalfire.
Dunque lo spettacolo del processo che giovedì si aprirà tra le quinte ridondanti dell’aula bunker del carcere di Rebibbia – con i suoi riverberi d’altri allestimenti teatrali infinitamente narrati: Ustica, P2, Moro-Brigate rosse, delitto di via Poma – rischia un effetto remake già al primo ciak. Almeno per via delle facce che sfileranno durante il kolossal, 46 imputati, 250 testimoni, 100 mila pagine di carte processuali, 3600 ore di intercettazioni telefoniche e ambientali.
 
Coop rosse, bianche e abbuffate bipartisan
Con alcune (e non amichevoli) partecipazioni di presunti lestofanti tipo Salvatore Buzzi, il plenipotenziario della cooperativa 29 Giugno (51 milioni di fatturato) che masticava la tragedia dei migranti trasformandola in denaro sonante, “ahò, ce guadagno mejo che con la droga”. Presunti politici corrotti, come l’ex camerata Luca Gramazio e l’ex veltroniano Luca Odevaine. Una manciata di star da talk show politico, compresi l’imperdibile Ignazio Marino, fresco di retromarcia su Roma, l’enigmatico Nicola Zingaretti, ancora presidente della Regione Lazio, e persino un veterano dei misteri romani, Gianni Letta, che coi suoi squisiti silenzi sta colmando il vuoto lasciato dalla buonanima di Giulio Andreotti, detto, tra i suoi adepti, “lo zio”.
Non mancheranno i colpi di scena. A cominciare dalla famosa lista dei 101 nomi di dirigenti e funzionari del Comune forse infedeli, forse conniventi al malaffare, a riprova che i mondi di sotto, di sopra, di mezzo, di destra e di sinistra – appena possono – corrono tutti dentro lo stesso specchio. Chissà se si mangeranno popcorn in aula. O se ci penserà l’altra cooperativa coinvolta, La Cascina (260 milioni di fatturato) questa volta bianca e targata Comunione e liberazione a portare i gelati. Giusto per stare in tema, visto che di insaziabili scorpacciate si parlerà, non solo di denari e appalti, autobus che non camminano, nettezza urbana che non pulisce, vigili urbani che non vigilano. Ma anche reputazioni di uomini e donne, funzionari pubblici e imprenditori privati, inghiottiti in questo eterno banchetto romano che si è andato perfezionando nell’ultimo, peculiare, ventennio. Durante il quale – di festa in festa, di mangiata in mangiata, di mignotta in mignotta – un’intera classe dirigente è stata selezionata al peggio.
 
Camerati, spezzapollici e ideali da portafogli
Dagli indimenticabili veterani dell’aragosta Previti e Squillante, il corruttore e il corrotto, compagni di circolo sul Tevere, ai massaggi con il preservativo del piccolo zar Guido Bertolaso, fino al cupo Gianni Alemanno che per farsi sindaco si tolse di dosso la croce celtica, ma non i camerati del suo passato. Compreso l’ex terrorista nero Carminati, con i suoi spezzapollici al seguito, alcuni magari attempati, ancora “con l’ideale nel cuore”, ma il cuore molto al di sotto del portafoglio.
Tutti fabbricati nel mondo di sotto, emersi ai bordi della cronaca nera, passati per gli anni di piombo, il carcere e infine risaliti dalla Magliana fino all’ampio parcheggio del distributore Eni con vista sugli ingorghi di corso Francia, da dove sputano sentenze sul mondo di sopra, bevendo Campari: “Tu a quello je devi dire: a coso come ti chiami? Ricordati che nella strada comandiamo sempre. Nella strada tu c’avrai sempre bisogno di noi”. Personaggi con infiniti riverberi cinetelevisivi, i duri in finta pelle, che un giorno si stancano di rosicchiare gli ossi al piano terra, vogliono salire anche loro alle feste dei superattici dove c’è musica, cibo caldo e costoso, assessori di destra e di sinistra in fregola, qualche nobile spiantato per fare arredamento.
 
“4 cavalli che corrono con il Pd e 3 con il Pdl”
Loro portano coca e femmine in tacchi a spillo: la ricreazione. E poi portano ordine nel disordine, velocizzano appalti con una minaccia in bianco e una mancia in nero (Buzzi: “Mo’ c’ho quattro cavalli che corrono con il Pd e tre con la Pdl”; “Ahò, io pago le cene, pago la segretaria, a Luca je do 5 mila al mese, tutti i mesi, all’assessore dieci, a quell’altro del Comune sette e cinquanta”). Tutta prosa già inserita nei correnti poliziotteschi seriali e buona per quelli futuri. Se non ci fosse di mezzo il naufragio di una intera città con le sue periferie crollanti, Capitale infetta di un Paese corrotto. Il quale continua a celebrare i suoi eroi civili – da Pasolini a Falcone – ma solo dopo che sono ben morti e sepolti sotto molta retorica e una corona di fiori. Sentendosi così intelligentemente rassicurato da certi suoi atleti del quieto vivere che dicono: “Ma questa non è mafia, sono rubagalline”.
Facendo finta di non sapere quanti politici, ma specialmente quanti giudici di un tempo non remoto, dicevano per l’appunto che “la mafia non esiste” e se esiste non risulta. E a un Boris Giuliano, capo della Mobile palermitana morto sparato una mattina di luglio del 1979, non firmavano i mandati di cattura con una alzata di spalle: “I corleonesi? L’associazione mafiosa? Mi porti le prove, signor commissario, non teoremi”. Oggi i teoremi e i contro-teoremi pari sono perché mandano avanti l’intreccio. Nello spettacolo che si allestisce sulle note di Mafia Capitale c’è posto anche per gli apoti, quelli che non la bevono, e che si credono spregiudicati e controcorrente vestendo i panni degli antagonisti in commedia. Tanto poi si continuerà tutti ad andare a cena da Johnny (“il miglior pesce di Roma”) dove giusto un anno e mezzo fa le microspie dei carabinieri del Ros intercettavano i piani della imminente latitanza di Matacena e Dell’Utri, altra coppia di eroi dello stesso copione. Il processone avrà 106 udienze, cioè puntate, quattro a settimana come le sit-com e audience adeguata. Le periferie magari un giorno o l’altro bruceranno, ma il finale, nelle buone fiction, è sempre provvisorio. Per i gufi aspettiamo la seconda serie.