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 2015  novembre 03 Martedì calendario

Il pizzo visto dal di dentro. Parla l’imprenditore Tommaso Toia

PALERMO.
«Me la ricordo come fosse ieri quell’estate in cui fui bocciato al liceo, avevo 14 anni», racconta l’imprenditore Tommaso Toia. «Mio padre mi mandò in cantiere a lavorare. E quell’estate scoprì cos’era la mafia».
Cosa accadeva nel cantiere della vostra ditta?
«Era la fine degli anni Ottanta, mio padre Domenico aveva dovuto assumere una quindicina di persone imposte dai boss di Bagheria. Ma io questo non lo sapevo ancora. Vedevo operai che trascorrevano tutto il giorno a ricevere persone, anche di un certo livello. Quelli non erano operai, erano dei mafiosi. In azienda venivano solo per tenere le loro udienze».
E suo padre non diceva nulla?
«In quell’estate afosa lo osservavo a distanza. Il giorno della paga dei dipendenti il suo viso si rabbuiava. Perché doveva pagare gli stipendi anche a quei finti operai. Era il pizzo alla mafia. L’ho capito poco a poco, perché mio padre non diceva mai nulla a me e a mio fratello. Non ha mai detto nulla fino al 2013, quando ormai era sul lastrico. Vent’anni di pizzo avevano distrutto l’azienda della nostra famiglia».
Poi, cosa è accaduto?
«Un giorno, stavamo al ristorante che avevamo rilevato, ormai diventato l’unica fonte di sostentamento per la famiglia. Mio padre ci disse: “Ho bisogno di scrivere quello che provo”. Qualche tempo dopo gli regalai un quaderno, di quelli grandi. Mi ricordo che passava intere giornate a scrivere, in campagna. Quando completò anche l’ultima pagina disse a me e a mio fratello: “Guardate per favore se ci sono errori di ortografia”. E io quasi piangevo dopo aver letto le prime pagine di quella storia. La storia della nostra famiglia vessata dal pizzo. Il giorno dopo, mio padre era davanti al maresciallo dei carabinieri».
Dopo la denuncia, cosa le ha detto suo padre?
«È tornato a casa e si è chiuso in una stanza. Non è voluto più uscire, aveva paura. Ha perso 50 chili. Ai suoi familiari non ha voluto raccontare quello che aveva veramente vissuto nella sua vita. E qualche mese dopo è stato assalito da un’emorragia celebrare. È stato un anno in coma. E nel maggio scorso è morto. Adesso, ho il rimpianto di non avergli fatto prima tante domande».
Cosa avrebbe voluto chiedergli?
«Di quando mi diceva: “Queste cose a te non competono”. Avevo 18 anni, ero andato a lavorare in azienda. E gli ripetevo: “Ma cos’è questa indicazione che trovo alla fine della contabilità? Tre milioni, Bagheria”. Mi rispondeva: “Un giorno te lo dirò”. E io insistevo, anche se mi rendevo conto che di certe cose non si poteva parlare».
Qual era la risposta di suo padre?
«Faceva di tutto per mandarci lontano. La nostra azienda ha illuminato l’Appia Nuova e anche la galleria del Frejus. Ma la sede operativa dell’azienda restava in Sicilia. Lui ci ripeteva: “Sono risucchiato da questa terra”. L’amava e l’odiava la sua Bagheria. Tanto, tantissimo. E alla fine era stanco di vivere qui. Sperava che almeno noi saremmo andati via, con questo ideale ci ha fatto crescere. Ma anche io e mio fratello siamo rimasti, fra tante difficoltà. Perché l’azienda di famiglia risente ancora di quella lenta emorragia causata da vent’anni di pizzo».
Cosa hanno chiesto dalla fine degli anni Ottanta i mafiosi di Bagheria a suo padre?
«Assunzioni e soldi, tanti soldi. Perfino di mantenere la famiglia di un mafioso importante che era finito in carcere. Anche questo l’ho scoperto leggendo la denuncia di mio padre ai carabinieri, che è oggi diventata una sorta di suo testamento morale. Gli imposero pure di acquistare quote societarie del Bagheria calcio, e di sostenere altri investimenti mafiosi. Il pizzo ha tante facce. E negli ultimi anni mio padre ha dovuto vendere anche un immobile per far fronte alle richieste dei boss».
Continuerà a lavorare a Bagheria?
«Oggi è una bella giornata. Le dico di sì, resterò in Sicilia. Lo penso davvero. Grazie al sostegno delle associazioni antiracket, Addiopizzo e Libero Futuro, stiamo facendo un percorso importante per ricominciare. Bisogna essere in tanti, altrimenti la mafia non la sconfiggeremo».