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 2015  novembre 03 Martedì calendario

«Vedi che domani mi devi portare i soldi» diceva l’esattore prendendo l’imprenditore sotto braccio. Adesso l’imprenditore s’è stufato e ha denunciato i mafiosi del pizzo. A Bagheria (sindaco dei Cinquestelle) forse è tornata di moda l’onestà

Molti di loro hanno cominciato a pagare che c’era ancora la lira, e hanno continuato in euro. Dieci, venti, trent’anni di “pizzo” versato alle potenti cosche mafiose di Bagheria, da sempre feudo di Bernardo Provenzano. Qualcuno, come Domenico Toia, alla fine c’è morto, da indigente, rovinato da quella mafia che gli ha rosicchiato fino all’ultimo mattone del suo impero imprenditoriale lasciandolo povero in canna senza neanche la casa. Qualcun altro, come Gioacchino Sciortino, dopo essersi ribellato, non ce l’ha fatta e si è impiccato nel suo magazzino. Per altri 35, invece, imprenditori e commercianti vessati dalle cosche che hanno trovato il coraggio di denunciare, ieri è stato il giorno della “liberazione”. E quei 22 arresti ordinati dalla Dda di Palermo hanno sancito quella che per Bagheria, la città di Renato Guttuso e Dacia Maraini, è una vera e propria rivoluzione.
“Grazie al coraggio di chi rifiuta ricatti, grazie ai carabinieri e agli inquirenti. Bagheria non è cosa loro”, ha tweettato ieri mattina il presidente del Consiglio Matteo Renzi salutando il blitz dei carabinieri del comando provinciale nella Baaria resa famosa dal film di Giuseppe Tornatore. «Una mafia antica e moderna, classica ma attuale che continua a soggiogare il territorio e l’economia», dice il procuratore Francesco Lo Voi snocciolando i nomi dei boss raggiunti in carcere dalle ordinanze di custodia cautelare. Nomi che hanno segnato la storia della mafia, da Nicolò Eucaliptus a Onofrio Morreale, da Gino Mineo a Pino Scaduto. A loro e ai loro “sgherri” nessuno osava dire no. Per questo, quando una mattina dell’anno scorso il comandante della stazione di Bagheria Ettore Saladino si è visto entrare in ufficio un imprenditore al quale avevano chiuso con un catenaccio il cancello dell’azienda, ha capito che anche a Bagheria il muro della paura cominciava a vacillare: «Comandante, mi aiuti. Ho deciso di raccontare tutto perché ogni volta che suonano al citofono di casa mia e ogni volta che vedo lo sguardo inquietante e minaccioso di quello che ieri mi ha preso sottobraccio per dirmi “Vedi che domani mi devi portare i soldi”, temo per l’incolumità mia, di mia moglie, dei miei due figli».
In tre si sono presentati spontaneamente, ma un’altra trentina di operatori economici chiamati negli uffici del nucleo investigativo dei carabinieri hanno seguito la loro strada confermando i racconti del pentito Sergio Flamia, uno degli esattori al soldo del boss, che da mesi sta aiutando gli investigatori guidati dal tenente colonnello Salvatore Altavilla a disarticolare quella struttura di Cosa nostra nella quale, come dice il procuratore aggiunto Leonardo Agueci, “i boss che entravano e uscivano dal carcere si davano il cambio in perfetta staffetta nella riscossione del pizzo”. I soliti contributi per mantenere le famiglie dei detenuti, i “regali” da 3.000 a 5.000 euro per Pasqua e Natale, ma non solo. I mafiosi di Bagheria obbligavano le loro vittime a cedere loro attività, aziende, persino le loro case. Ci sono 50 storie di operatori economici distrutti dal racket del pizzo nell’inchiesta condotta dai sostituti procuratori Francesca Mazzocco e Caterina Malagoli. Titolari di imprese edili e di movimento terra, supermercati e sale gioco, bar e ristoranti. Pagavano tutti e chi, magari strozzato dalla crisi, non riusciva a far fronte alle richieste, riceveva il messaggio inequivocabile: furti di mezzi, incendi, danneggiamenti e il classico catenaccio attorno al cancello dell’attività. «Chi non pagava subiva pesanti intimidazioni», ammette Gioacchino Imburgia, amministratore unico della “Eurocostruzioni”: «A me avevano chiesto 8.000 euro per trenta villette che stavo realizzando. Io, di intimidazioni ne ho subite parecchie: una volte hanno dato fuoco contemporaneamente a 15 porte blindate». «È la riprova delle pressioni ancora molto forti che Cosa nostra opera sul tessuto imprenditoriale – dice il comandante provinciae dei carabinieri Giuseppe De Rigg i- ma la nostra strategia operativa in costante contatto con le associazioni come Addiopizzo e Libero Futuro si sta mostrando vincente».
In corso Butera, nel centro di Bagheria, oggi fa bella mostra di sé un cartello con una frase di Peppino Impastato “la mafia è una montagna di merda”. «Il vento è cambiato, in questa città l’onestà sta tornando di moda. Noi oggi questa montagna di merda la stiamo abbattendo», dice il sindaco Patrizio Cinque, del Movimento 5 stelle che rivela: «Bernardo Provenzano ha abitato per un periodo in una casa popolare di Bagheria senza che il Comune se ne accorgesse o, magari, volesse rendersene conto. Noi abbiamo girato tutte le informazioni del caso ai carabinieri».