Corriere della Sera, 1 novembre 2015
Essere Carl Lewis («E non Bolt che pensa solo a se stesso»). Il super campione olimpico si racconta
L’uomo, sotto una certa morbidezza della figura, conserva i tratti distintivi del potere. Lo sguardo altero. Il sedere a metà schiena. Le mani grandi, con quelle dita serrate a rostro che da Helsinki ’83 ad Atlanta ’96, attraverso 4 Mondiali e 3 Olimpiadi, tagliarono l’aria a questa creatura venuta dall’Alabama, la terra degli schiavi che partorì un re, e la cosa più simile a Jesse Owens mai comparsa sul tartan. Frederick Carlton Lewis, detto Carl, 54 anni, 9 ori olimpici (4 a Los Angeles) e 8 iridati, è in Italia come ambasciatore Onu (oggi a Roma darà il via alla Corsa dei Santi, in nome degli orfani africani di Ebola): seduto sui gradoni dello Stadio dei Marmi intitolato a Pietro Mennea («Un rivale e un amico, la sua morte improvvisa mi ha choccato»), fa ancora voltare la testa ai passanti. Il vento si è fermato, suo figlio ha qualcosa da dire.
Chi è oggi Carl Lewis?
«Un coach dell’Università di Houston, dove sono tornato a vivere con Evelyn, mia madre 86enne. Un padre: mio figlio ha 21 anni e serve la patria in Corea, nell’esercito. Un ex atleta, un politico, un testimonial Nike che viaggia 190 giorni all’anno. Non resto a casa a guardare la tv, insomma...».
A Giochi e Mondiali non la vediamo mai, però.
«Frequentavo poco l’atletica anche quando la praticavo, cosa verrei a fare oggi? Del Mondiale di Pechino non ho visto un’immagine. Ero al campo, con i miei ragazzi».
No Lewis, no party.
«L’atletica sta morendo. I coach non sanno allenare, i grandi ex vivono di rendita e non studiano, gli atleti s’infortunano di continuo. L’Europa, Italia inclusa, ha un complesso di inferiorità rispetto al resto del mondo, soprattutto nello sprint. Oh no, l’atletica in pista proprio non mi manca».
Seb Coe presidente è una buona o cattiva notizia?
«Lo conosco dall’80, è competente e appassionato. Ha il carisma per affrontare una grande sfida».
Bolt stravince e si continua a parlare di Owens e Lewis. Perché?
«Perché lo sport ha il potere di cambiare il mondo, e Jesse e io l’abbiamo cambiato. Pensi a Moses, Jackie Joyner, Beamon, Powell, Johnson... Abbiamo fatto diventare il nostro sport multimilionario, proiettandolo in una nuova era».
Lei è sempre stato critico con Bolt e i suoi record.
«Lo sfido a guardarsi dentro: pensa di aver fatto crescere l’atletica? Ha fatto qualcosa che non fosse solo per se stesso? È stato generoso di sé? Per diventare migliore non puoi permetterti di essere egoista».
Perché, quasi 50 anni dopo, il pugno guantato di Tommie Smith in Messico è ancora un’icona così potente?
«Perché contiene il coraggio di Tommie, che cambiò la storia e ne pagò le conseguenze. Ai miei ragazzi dico: vivete nella cultura dei media e dei social, apritevi, lasciatevi contagiare, uscite da voi stessi».
Cosa sarebbe stato Lewis con Facebook e Twitter?
«Avrei mandato al mondo i miei messaggi, invece di essere schiavo dei giornalisti».
La sua foto in tacchi a spillo per lo spot Pirelli colpì come uno schiaffo.
«Il mio manager mi intimò: non farlo! Coach Tellez, il migliore di tutti, mi lasciò libero. Okay, scattate pure, dissi, ma se pensate che mi depili le gambe siete pazzi! C’è voluto del coraggio, infatti la gente se lo ricorda ancora».
Chi le sembra coraggioso?
«Be’, abbiamo un Papa progressista, che ci sta dando nuova consapevolezza. E il mondo è quasi pronto a un presidente degli Stati Uniti donna. Conosco i Clinton da vent’anni, sono un grande fan di Hillary. M’impegnerò per la sua campagna elettorale: gli Usa hanno bisogno della sensibilità di una madre. Dopo Obama, oseremo di più».
A 54 anni sembra più mite.
«Da bambino traevo ispirazione da Owens. Oggi non ho idoli né miti. Ho la mia spiritualità e una vita fortunata per cui ringrazio ogni mattina».
Dove tiene medaglie e trofei?
«In un deposito, imballati. Devo decidere cosa farne: forse un museo, a Houston».
Dopo lo sport e la politica perché allena?
«Per far piangere i genitori dei futuri recordmen. Quando vedevo i miei commuoversi per i successi, ero felice».
È vero che alla morte di suo padre William gli mise in mano l’oro di Los Angeles nei 100 perché fosse seppellito con lui?
«Sì. Tranquilla ne vincerò un altro, dissi a mia madre».
Non è che non abbiamo capito niente di lei, Carl? L’abbiamo scambiata per un campione venuto dal futuro e invece lei era l’ultimo eroe romantico.
«Io romantico? Mah... Fare l’eroe non era nei miei progetti».
Cosa voleva?
«Essere Carl Lewis per tutta la vita. Ci sono riuscito».