Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 01 Domenica calendario

A quarant’anni di distanza tornano nei cinema i primi due Fantozzi. Due capolavori, soprattutto se confrontati con gran parte dei film italiani di oggi

Prologo. Nei cinema italiani tornano, a quarant’anni di distanza, i primi due Fantozzi. Due capolavori del nostro umorismo, giustamente proverbiali. A guardarli ora, appartengono a un altro mondo. Nel 1975 o nel 1978 si rideva di un piccolo impiegato vittima, di imboscati, dopolavori, famiglie squallide e serate davanti alla Tv. Oggi, per un trentenne, un impiego fisso è un miraggio, e l’appartamento sulla sopraelevata in cui lui vive, a Roma, è al di sopra delle possibilità dell’80% degli under 40. Per non parlare del celebre urlo contro La corazzata Potëmkin: in tempi di convegni sui cinepanettoni, chi si illude ancora sul valore liberatorio di quello sfogo? A suo modo, Fantozzi è un film storico. Perché allora continua a far ridere più delle commedie contemporanee? Un po’ perché abbiamo ancora impiegati imboscati, timbratori truffaldini di cartellini, e soprattutto visconti Cobram, Piermattei Barambani, cavalieri Semenzara.
E poi perché ha tre elementi poco utilizzati, specie insieme: la fisicità (che è il motivo per cui piace a grandi e piccoli), la perfetta aderenza satirica al proprio tempo, e la cattiveria. E la regia di Luciano Salce aveva un ritmo forsennato. Oggi, a parte Boris, né cinema né Tv mostrano niente di simile. C’è il singolo talento di qualche comico (Zalone) o un cattivismo interessante ma tutto di testa, e un po’ superficiale (I soliti idioti, Maccio Capatonda), oltre ai pochi resistenti della commedia, con sempre meno voglia di ridere (Verdone).
Oggi, non vorremmo illuderci ma sembra un po’ in ribasso la dissennata monocoltura della commedia (ne fai dieci, due incassano, le altre vanno male ma tanto non se ne ricorderà nessuno): beninteso, non una commedia attuale, fisica, cattiva, bensì una annacquata e meccanica commedia sentimentale, salvata talvolta da qualche comprimario. Io che amo solo te sta andando piuttosto bene; la solita commedia sentimentale con Argentero, Poli opposti, invece, maluccio; tra un po’ arrivano un Massimo Boldi e Belli di papà, firmato a sorpresa da Guido Chiesa, critico cinefilo e autore (il suo ultimo film era una biografia della Madonna, parlato in arabo e greco antico). Mentre si mormora che sia piuttosto diverso il prossimo film di Massimiliano Bruno, caratterista e fortunato regista comico.
Se diamo un’occhiata al cinema che esce in questo periodo, dopo Venezia e prima di Natale, la situazione sembra confusamente in divenire. L’equilibrio tra autori e generi o filoni è confuso e fluttuante come non mai. Sembrano finiti gli anni in cui il cinema medio d’autore (sostanzialmente la traduzione italiana della parola midcult) era riuscito almeno a riempire una fetta di mercato, colto e di mezza età, oggi quel pubblico è scomparso. Ne rimangono ancora stanchi esempi, come da ultimo il Sergio Rubini di Dobbiamo parlare, a metà tra Carnage e Il nome del figlio. Il cinema d’autore più coraggioso, d’altronde, non ha a volte nemmeno un piccolo pubblico d’élite, e a volte è un peccato. Quanti hanno visto Arianna di Carlo Lavagna, piccolo gioiello presentata in una sezione collaterale di Venezia? Era la storia di una ragazzina nata ermafrodito, di un’estate dei 19 anni...
I nostri film migliori sembrano fuori del tempo, come Non essere cattivo, film che si ama subito, perché è «come si facevano una volta». Il cinema d’autore cerca il genere, per comunicare, per strutturarsi, per darsi un senso. Ma quali generi? Di solito, il noir di imitazione americana o poliziottesca.
Il caso più esemplare è Suburra, opinabile affresco storico-sociale ed efficace pilot di una serie a venire. Del resto, dopo anni di squadre antimafie e simili, la nostra tv si è inventata un proprio truce poliziesco spesso interessante (e Sollima ha ormai una sua fisionomia d’autore, coi suoi pregi e limiti). Il genere stiamo riuscendo a farlo in tv (tra un po’ arriverà anche l’horror, pare, con Suspiria): una tv al momento minoritaria, ben esportabile all’estero, molto avanti per il pubblico vetusto e in esaurimento delle reti generalista.
Interessante in questa chiave un altro titolo che è a suo modo un vero film di genere, Alaska di Claudio Cupellini. Un melodramma di tragici equivoci, passioni autodistruttive, voglia di riscatto. Sullo sfondo l’Italia di oggi, ma senza sociologismi, piuttosto come un conato verso il cambiamento e un senso di prigionia. Qualcosa di profondo, a cui la regia aderisce d’impeto. Potremmo metterla così: ci sono i film di genere che diventano qualcosa d’altro, e film che per funzionare si travestono da genere. Ci sono film che, prendendo sul serio le storie e i personaggi, utilizzano i meccanismi e le convenzioni narrative e visive, e finiscono magari per smontare le convenzioni stesse, facendo un discorso su di sé. Ci sono invece operazioni “artistiche” in cui, quando non ce la si fa a tenere testa alla materia, il genere arriva in soccorso, mettendo tutte le cose a posto, narrativamente e non solo. Fare il genere significa oltretutto intervenire su un patto ormai saltato tra pubblico e cinema, su una perduta ingenuità. Lavorare con strumenti che sono ormai “a vista”, come i fili dei burattini. Strumenti per commuovere, appassionare, far ridere e far paura, che hanno una storia, che si deposita e agisce inconsciamente mentre guardiamo i film. Strumenti che è tanto più facile, dunque, per un autore, usare con cinismo o in maniera scolastica.
Ma tutti questi discorsi sono forse già di ieri. Alla Festa (già Festival, già Festa) di Roma, evento speciale di “Alice nella città”, è passato Game Therapy, film interpretato da una serie di youtubers tra cui FaVj, nome che dice qualcosa solo a qualche centinaio di migliaia di adolescenti e ai loro genitori. Il tentativo di un nuovo genere, per un pubblico di adolescenti, era stato fatto l’anno scorso con Il bambino invisibile di Salvatores, che era però per metà un “film italiano” tradizionale. Qui invece, con la regia affidata all’esordiente americano Ryan Travis e senza volti noti del nostro cinema (l’unico adulto riconoscibile è il deejay Linus), siamo in puro, aggressivo cinema giovanilista globale. Una specie di versione aggiornata della Storia infinita, con i videogiochi al posto dei libri, ma con un velo di super-Io: alla fine, il protagonista preferisce la coetanea alla realtà virtuale. E anche una trascrizione dell’universo del videogioco in una serie di situazioni, che sono un catalogo di generi cinematografici. Certo, attori, storia e tutto ciò che consideriamo ingredienti anche solo di un prodotto commerciale, non esistono più. E chissà quanto tutto questo si adatti al contenitore cinema: Game Therapy in sala va benino, ma non sta sfondando. Alla prima proiezione del film, però, c’era un tifo da stadio, con bambini e ragazzi che urlavano all’apparire dell’uno o dell’altro post-divo. L’impressione era che il cinema, inteso come luogo, modo di fruizione, linguaggio, cercasse di cavalcare un mondo nuovo, a lui molto più estraneo di quanto fosse la televisione (negli stessi giorni, peraltro, Netflix sbarcava in Italia).