La Stampa, 1 novembre 2015
Burri al Guggenheim. Parla Emily Braun, curatrice della mostra
Professoressa Braun, lei è la curatrice della grande retrospettiva di Alberto Burri, The Trauma of Painting appena inaugurata al Guggenheim di New York. Mi racconta questo suo lungo viaggio?
«Quattro anni fa mi ha cercato il Guggenheim, io stavo lavorando alla mostra di arte cubista di Leonard Lauder che poi andò al Metropolitan. Sono andata nella città di Burri, Città di Castello, per vedere i due musei e incontrare il cda della Fondazione. Allora il presidente era Maurizio Calvesi. Ci sono tornata molte volte, tutti erano molto contenti dell’iniziativa del Guggenheim».
Ha lavorato a stretto contatto con la Fondazione?
«Ho avuto la fortuna di avere una fantastica collaborazione con la curatrice, Chiara Sarteanesi. Poi ho viaggiato parecchio in Europa cercando le collezioni private. Le opere di Burri bisogna vederle di persona perché le fotografie non rendono. Ho chiesto in prestito un centinaio di opere ma ne ho viste molte di più».
Quali criteri ha usato per selezionarle?
«Due. Trovare le opere storicamente importanti e le migliori di ogni serie. E poi un terzo: le opere dovevano essere scelte in modo da adattarsi allo spazio espositivo a spirale della rotonda di Frank Lloyd Wright al Guggenheim».
Cos’è più importante per lei quando prepara un allestimento?
«L’importante in una mostra monografica sono la selezione e l’allestimento. Ogni quadro deve spiccare e bisogna pensare a come raggruppare le opere e alla loro sequenza».
Ci sono dei particolari capolavori nell’opera di Burri?
«Si, erano quelli che cercavo. Per esempio, Lo strappo (The Rip, 1952), parte della collezione di Beatrice Monti della Corte. Un altro è il Grande Sacco (Big Sack 1952), dalla Galleria D’Arte Moderna di Roma. Un altro ancora il Gobbo Rosso (Red Hunchback 1956), da una collezione privata. E Legno (Wood, 1957), della Guggenheim Collection, e lo straordinario Ferro (Steel, 1959-60) dalla GAM di Torino. E Plastica-Nero (1962) che appartiene a una collezione del MoMA. Abbiamo anche una bellissima plastica trasparente che arriva dalla Glenstone Collection (1963), e un Cretto Nero del Pompidou (1975)».
Che genere di artista è Burri? È vero che nella sua opera non c’è quasi pittura, come ha scritto Milton Gendel?
«Sì, in alcuni casi non ce n’è affatto, in altri molto poca. Cesare Brandi definiva l’opera di Burri “il dipinto non dipinto” riferendosi ai Sacchi. Io penso che sia un neorealista, come il cinema. Faccio riferimento a questo nel catalogo. È un realista materialista, ma il suo lavoro è ancorato nella realtà dei materiali e ha una qualità tattile. Ciò che colpisce il pubblico, come scrisse Giulio Carlo Argan, è che i quadri di Burri chiedono di essere toccati».
Lo considera un artista solitario o parte di un gruppo o di un periodo?
«Ha esposto in tutta Europa e in America, ma non ha mai fatto autopromozione né si è unito a dei movimenti. Non ha fatto rete, al contrario di Fontana. Era molto influente e molto conosciuto negli Anni 50 e nei primi 60».
È stato dimenticato?
«No, era sempre molto noto in Europa, poi l’attenzione si è rivolta altrove, al minimalismo, all’ Arte Povera. In parte perché regolarmente i gusti cambiano. A metà Anni 60 le giovani generazioni amavano Pistoletto, Schifano, Anselmo, Boetti, il post-minimalismo, la process art, l’arte concettuale. Burri ha influenzato l’Arte Povera. Quello che ho cercato di mettere in evidenza è come altri artisti come Cy Twombly o Lee Bontecou conoscessero le opere di Burri, e quanto il suo lavoro abbia a che fare con il corpo in un modo che anticipa l’arte femminista».
Perché il Guggenheim è il posto giusto per una mostra di Burri?
«Per due ragioni. La prima è il lungo legame dell’istituzione con Burri: il secondo direttore del museo James Johnson Sweeney infatti acquistò tre importanti opere di Burri per il Guggenheim nel 1955, e scrisse il primo libro importante su di lui. In secondo luogo, la rampa a spirale del Guggenheim mi è sembrata ideale per svelare a ogni svolta le diverse serie».
Pensa che Burri sia uno tra i maggiori artisti della seconda metà del XX secolo?
«Sì, perché ha inventato un nuovo approccio all’arte, creando quadri con manufatti, materiali comuni, con un grande potere emozionale. Guardando un Burri lo senti anche, è veramente una figura di collegamento tra l’arte della prima e della seconda metà del XX secolo. È l’artista degli artisti».
Qual è il giudizio della critica su questa mostra dedicata a Burri?
«In questa retrospettiva i critici hanno l’opportunità di vedere in modo approfondito il suo lavoro in un contesto internazionale più ampio. È una sfida al solito modo di raccontare la storia dell’arte moderna. Continuo ad avere feedback positivi dai visitatori».
Dopo aver curato la collezione cubista di Leonard Lauder per il Metropolitan e la retrospettiva di Burri per il Guggenheim, quali sono i suoi nuovi progetti?
«Sto scrivendo dei saggi, uno sui ritratti di Gustav Klimt, e un altro sul Cubismo e c’è anche una mostra di cui non posso ancora parlare!».
Idealmente cosa le piacerebbe fare?
«Mi piacerebbe molto fare una mostra sull’800 italiano e il Risorgimento, non solo i Macchiaioli e il simbolismo. Molta pittura figurativa italiana non è mai stata messa in mostra negli Usa».