la Repubblica, 1 novembre 2015
Ritratto di Marco D’Amore, il terribile boss della “Gomorra” televisiva
ROMA.
Un conto è vederlo in televisione, gli occhi furenti dell’aspirante boss, fascinosa minaccia nella Napoli camorrista. Un conto è vederlo arrivare verso il bar dell’appuntamento in una giornata di sole romano, con un sorriso dolcissimo, l’ormai celebre pelata incappucciata in un berretto blu, occhiali da sole, zainetto in spalla, l’aria cauta e la speranza che nessuno lo riconosca. Il venerato Ciro Di Marzio, l’Immortale della serie Sky Gomorra, “il fratello” di Genny Savastano, il traditore che cattura immense platee di simpatizzanti, dal vivo si rivela da subito una piacevole scoperta: bello e fiero. Un ragazzo diritto.
Del bravo artista, Marco D’Amore, trentaquattro anni da Caserta, ha le doti essenziali e non comuni: non si stanca mai – sul set di Gomorra raccontano di notti sotto la pioggia senza un cedimento – ed è di una curiosità senza limiti. Si interessa di tutto, finanche di paranormale. Racconta del saggio di Garboli che ha sul comodino, dell’orgoglio di quando Elio Germano vinse la Palma a Cannes («perché sono uno che crede nel gruppo, se vince uno vincono tutti»). È un sognatore, e un passionale. Recita da quando aveva diciotto anni, imita («sul set li ammazzo tutti dal ridere: un attore deve guardare la gente, catturare gesti, andature... il dramma è che con Gomorra il guardato ora sono io»), suona flauto e clarinetto: «La mia vera passione è la musica. Soul, funky, black...ho anche scritto uno spettacolo, J27, su Janis Joplin, Jim Morrison e Jimi Hendrix tutti morti a ventisette anni, ma dove la trovo una voce come quella di Janis? Adoro Otis Redding, sono malato per Marvin Gaye, mi piace Ed Sheeran, lui è un fan di Gomorra, mi ha invitato al suo concerto e siamo stati tre quarti d’ora in camerino a suonare e cantare, privilegi del successo davanti a cui alzo le mani. Un mio grande compagno di musica è Toni Servillo: nei quattro anni di tournée per l’Europa con la Trilogia della Villeggiatura, in auto cantavamo da Ramazzotti a Pino Daniele, e mi faceva ascoltare Brahms – anche se io sono più per il massonico Mozart».
Uno così difficilmente avrebbe potuto fare il ragioniere «come invece voleva mia madre, è che sono cresciuto in un terreno fertile». Genitori appassionati di musica e letture, la sorella attrice, il fratello Giuliano, organizzatore di spettacolo, amministra la Piccola Società, la sua compagnia. E poi c’è il nonno, Ciro Capezzone. Senza retorica sentimentalistica Marco rievoca questo bel signore, impiegato della Sip ma in realtà attore. «Andavamo al Sannazzaro a vederlo. Aveva una sua compagnia, recitava con Nino Taranto, Nanny Loy, Rosi, vinse una edizione della Corrida, ha fatto sceneggiati... Avevamo un rapporto speciale noi due. Quando nacqui, primo nipote maschio, mi dedicò una poesia e quando se ne andò decisi che dovevo dormire a casa di mia nonna per non lasciarla sola. Così feci, per sette anni e mezzo». Fino a che non se ne andò a Milano, aveva diciotto anni e tutti gli amici contro: «Milano? E che ci vai a fare?». Al teatro ci pensava fin da adolescente. «Avevo voglia di provare a stare lontano, solo, di mettermi in difficoltà, e a Milano non conoscevo nessuno. Mi iscrissi alla scuola “Paolo Grassi” e sarò grato per sempre a una ragazza, Ginevra, che senza quasi sapere chi fossi mi ospitò a casa a sua. È quella che io chiamo l’umanità milanese. Quella città per me è una seconda casa, ci sono stato cinque anni e ci sono stato benissimo. Ho fatto il barista, il pizzaiolo, il babysitter... Mi ha aperto la testa. A Napoli sò tutti divisi, Milano fa squadra, e fa le cose». Ma c’è anche una Napoli, che è non quella di Gomorra che leggeva sui giornali, che è stata la città della sua educazione teatrale: il Teatro Nuovo, la sala Assoli, i Teatri Uniti di Toni Servillo (che considera il suo padre artistico insieme a Elena Bucci e Marco Sgrosso, allievi di Leo De Berardinis). «Io credo molto alle coincidenze, alle scintille. Nel 2001 facevo un laboratorio con Tony Laudadio e Enrico Ianniello. Una sera andammo in camerino a salutare Andrea Renzi che faceva Majakóvskij. Io rimasi in disparte, per timidezza. Ma il giorno dopo Renzi mi chiamò per Pinocchio, il mio debutto, la scintilla. Io dentro viaggiavo con i sogni e il mio carico di desiderio in quel camerino fu percepito».
Da una scintilla è nato anche Gomorra. Il regista Stefano Sollima, dopo aver visionato qualcosa come millequattrocento candidati, lo vede nel film Una vita tranquilla e lo sceglie. E sì che Marco ha i capelli lunghi e venticinque chili in più del Ciro dall’aria divoratrice e la testa calva “alla Saviano”. «Ma Sollima aveva capito che poteva lavorare su di me. Ciro è molto cambiato durante le riprese. Il rapporto con Genny, per esempio, è nato perché ha visto la simbiosi tra Salvatore Esposito e me. E poi devo dire una cosa forse spaventosa, anche per me: un pizzico di Ciro nella mia natura ci deve stare...». In fondo è una figura eroica... «Guai!! A me per aver detto una simile cosa mi hanno disintegrato. Ma parlavo di eroe nero, shakespeariano, un eroe perché lui fa scaturire il proprio odio dal più alto sentimento, dal legame con Attilio, il padre putativo che l’ha salvato». L’attesa seconda serie, anticipa, alzerà il tiro: da marzo sempre su Sky che ha il merito di aver scoperto i migliori giovani interpreti che stanno cambiando il panorama del cinema e della televisione, Gomorra 2 entra nella psicologia dei camorristi con conseguenze estreme su realtà e personaggi. Ciro compreso.
Il successo l’ha cambiata? «T’aggia dicere ‘a verità? Il successo è bellissimo, un merito che ti viene riconosciuto, ma è anche un fiume in piena che invade la tua vita. Io vivo da recluso. E non mi piace. Sono uno che va a fare la spesa in pantofole, ma se scelgo la carta igienica non mi va di avere otto persone dietro che mi guardano». Per questo dice di amare «le cose storte» e se le va a cercare. Dopo Gomorra, per esempio, ha ricevuto decine di proposte di sicura popolarità, ma ha accettato di fare la comparsa nel film di Cupellini, Alaska, in sala in questi giorni; e a gennaio lavorerà con un esordiente, Cosimo Gomez, in Sporchi e cattivi («sarà una cosa sorprendente») e soprattutto dal 3 dicembre si è messo in testa di girare l’Italia con un furgoncino per seguire passo passo il “suo” di film, Un posto sicuro. Lo ha scritto e girato con Francesco Ghiaccio, l’amico- amico dai tempi della “Paolo Grassi”, film durissimo, nella tradizione del cinema italiano ricco di tensione umana e civile, la storia di un figlio sbandato che ritrova il padre malato scoprendo così le centinaia di morti d’amianto a Casale Monferrato, la città dell’Eternit. «L’ho fatto perché quella tragedia non venga risucchiata dal silenzio, l’ho fatto pensando a noi ragazzi tra i ventisette e trentatré anni che non ne sappiamo nulla dei cinquecento chili di amianto procapite che abbiamo in Italia, o del fatto che la stragrande maggioranza degli edifici pubblici sono di amianto e sono biblioteche, scuole, ospedali. Per fare il film sono andato a Casale, ho parlato con gli amministratori, i parenti delle vittime... Non c’è abitante che non abbia un parente malato, eppure c’è una forza vitale, un senso della comunità, discutono. Lì c’è il valore della democrazia che da altre parti abbiamo perduto». Sa intenerire con questo suo entusiasmo e coraggio. «Nelle cose in cui credo mi butto a cuore aperto. Sono passato in mezzo a cose brutte che mi hanno messo alla prova e mi hanno dato forza. Per cui ora vivo in un fermento continuo. Fosse per me farei trecentomila cose». Legge quattro-cinque libri assieme, progetta uno spettacolo, Una storia d’amore, sottotitolo “Quattro stracci”, fuori dai teatri perché sostiene che sono diventati luoghi troppo sicuri, «dormitori». Vorrebbe anche tanti figli con la compagna con cui vive a Caserta. «So che la mia è una buona stella, ma in salita. C’è chi esordisce e da subito ha una carriera luminosa. Io no, ho fatto cose belle che non hanno avuto il clamore che si meritavano. Ma so di essere bravo, e so dove andare. Un passo alla volta».