la Repubblica, 1 novembre 2015
Austin, Texas, terra di petrolio e pistole. E di scrittori che lasciano proprio qui i loro manoscritti
Ci sono i manoscritti di Coetzee, rilegati da lui medesimo in cartone ondulato. E c’è la foto di tripudio domestico dove Mercedes Barcha bacia sulla guancia, nel giardino di casa, il marito Gabriel García Márquez che ha appena appreso di aver vinto il Nobel.
L’archivio dell’autore di Cent’anni di solitudine è solo l’ultimo arrivato all’Harry Ransom Center (Hrc) dell’università del Texas a Austin, un super-caveau delle lettere che cresce come nessun altro: 42 milioni di manoscritti, un milione di libri rari, cinque di fotografie. Ma perché, di tutti i posti, le spoglie cartacee di queste e molte altre superpotenze letterarie finiscono proprio qui? L’università del Texas nella classifica di Us News&World Report arriva cinquantaduesima. Eppure l’Hrc ha stracciato i suoi omologhi di Yale e Harvard quanto a forza attrattiva. Che è un po’ come se Messi al Barcellona preferisse l’Empoli. Ci dev’essere un trucco, ma quale?
Qualche mese fa sono andato a vedere. Il cubo di calcare e vetro, nella cittadella studentesca, assomiglia più a un deposito di lingotti che di libri. Ma con un centro modaiolo e festival di culto come il “South by southwest” Austin ha fatto miracoli nello scrollarsi di dosso i cliché petrolio& pistole e qui ora si viene in cerca di cibo per la mente. Entrare è facile. In teoria è un luogo per ricercatori, in pratica basta dimostrare che vi interessate a un certo autore e nessuno farà storie. Un video preliminare vi dà le istruzioni per l’uso e qualche avvertimento solo all’apparenza banale, tipo non strusciare con i gomiti sopra gli incunaboli (hanno anche una delle ventitré copie complete della Bibbia di Gutenberg, comprata nel 1978 per 2,4 milioni di dollari). Un bibliotecario vi mostra come reperire i materiali sui computer. Entro un quarto d’ora un inserviente vi consegnerà questi parallelepipedi grigio topo pieni di faldoni da consultare su bei tavoli di rovere. Vi mettono anche a disposizione fogli gialli e matite per gli appunti. Una pacchia, a metà strada tra un Luna Park e uno spettacolo per voyeur bibliofili.
Il centro deve il suo nome a Harry Huntt Ransom, preside dell’università negli anni Cinquanta, che denunciò lo scarto tra la povertà dei giacimenti librari rispetto alla ricchezza texana. I petrolieri, punti sul vivo, misero mano al portafogli. E l’università, che siede sul Bacino Permiano e possiede quindi i diritti minerari di un certo numero di pozzi, lo autorizzò a usare un po’ di quel denaro per le acquisizioni. All’inizio furono i modernisti britannici, da Beckett a Joyce, con un’intensità tale che il poeta Philip Larkin lanciò l’allarme che se continuava così tutti gli scrittori in lingua inglese sarebbero finiti in America. Nell’88 nominano direttore Thomas Staley, tanto colto studioso di Joyce quanto una forza della natura nella raccolta fondi. Sotto il suo regno le dotazioni finanziarie passano da un milione di dollari a venticinque milioni. Nella lista dei filantropi da oltre centomila dollari figurano i coniugi Jeanne e Michael L. Klein, benedetti dagli idrocarburi, e il finanziere David G. Booth che aveva già stabilito il record di munificenza verso un’università (300 milioni di dollari alla business school di Chicago, poi ribattezzata). Il primo colpo grosso di Staley è un tesoretto di materiali joyciani che fa uscire dalla Francia, temendo problemi doganali, nascosti in un furgoncino del pane. Ci troveranno, tra l’altro, le correzioni a mano del dublinese al primo capitolo di Finnegans Wake, sin lì uno dei principali anelli mancanti. Poi è la volta dell’archivio di Tom Stoppard, Isaac Singer, Bernard Malamud, Julian Barnes, Don DeLillo, Mailer, Foster Wallace, materiali di Graham Greene e Coetzee, oltre a Borges, Lessing, Queneau, documenti del Watergate, lettere di Steinbeck e via elencando. Il tutto assicurato, già qualche anno fa, per un miliardo di dollari. Di tutte le attrazioni ospitate all’Hrc la più globalmente magnetica, mi ha spiegato la curatrice Megan Barnard, è l’opus wallaciano. Tra le cose meno note i programmi dei suoi corsi all’università, con i caveat circa la qualità delle opinioni da sviluppare («” Pensavo che la poesia fosse, cioè, ok” non vi porterà molto lontano. Invece qualsiasi cosa sincera, ogni prodotto di una reale attività neurologica va bene»).
Dà una sensazione ambivalente rovistare tra queste carte. Da una parte l’entusiasmo di avere un osservatorio così intimo nel sistema operativo di un autore idolatrato. Dall’altra la vergogna di sbirciare senza il suo permesso. Pare che Mailer, quando andò a vedere gli scaffali dove la sua corrispondenza sarebbe finita, rispose così: «È senz’altro appropriato. In un modo o nell’altro finiremo tutti in qualche scatola». Chi apre le casse spesso si imbatte in piccole sorprese, come un mezzo sandwich vetrificato e un calzino tra gli scartafacci di Singer. Dai materiali di DeLillo si ha la conferma che il titolo di Rumore bianco doveva essere Panasonic e si apprezza quanto fu seccato dall’indisponibilità dell’azienda giapponese a farglielo usare (tra i titoli alternativi anche All Souls e Ultrasonic ).
Con il congedo di Staley nel 2013, oggi il capo è Stephen Enniss, che a Washington dirigeva la più grande biblioteca shakesperiana al mondo. Non c’è segreto, ci dice, solo buoni ingredienti: «Le acquisizioni vengono fatte grazie a un mix di fondi del centro, dell’università e di filantropi privati». Una sottile linea nera, bituminosa, tiene insieme i tre soggetti, ma il direttore sembra ritenere volgare menzionarlo. Ricorda invece «la reputazione di eccellenza nella catalogazione e nella conservazione e il fatto che si siano già accasati qui autori molto importanti facilita l’arrivo di altri di pari livello». Il motivo per cui al cimitero del Père-Lachaise hanno voluto finirci da Balzac a Jim Morrison. Non c’è modo di estorcergli quale sia il suo frammento preferito. Padre salomonico, si limita a dire che è rimasto affascinato dai blocchi di McEwan per Espiazione e da un incartamento di racconti con l’etichetta “completi ma abbandonati” («sono sempre attratto dai manoscritti che un romanziere decide di non pubblicare»). Quanto alle prossime acquisizioni, «saranno in linea con il Dna creativo che lega le attuali». Il pasto marqueziano è costato 2,2 milioni di euro. Ci vorrà tempo per smaltirlo.