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 2015  novembre 01 Domenica calendario

In Turchia, dopo le elezioni di giugno, ci sono state più di settecento persone ammazzate per motivi politici

Tezer Özlü, la scrittrice, una volta disse: «Questo Paese non è la nostra patria: è la patria di quelli che vogliono ammazzarci». Lo scrisse in una lettera subito dopo il massacro di piazza Taksim nel maggio del 1977, quando 34 persone furono uccise. Ancora oggi, nessuno degli autori di quella strage è stato catturato e processato.
Dopo le ultime elezioni, a giugno, più di settecento persone sono state uccise in attentati terroristici, o dalle forze di sicurezza turche o dai guerriglieri curdi del Pkk. Recentemente, il 10 ottobre, abbiamo assistito al peggiore attentato terroristico di sempre, quando due attentatori suicidi di Adiyaman, nel Kurdistan, a quanto pare membri dello Stato islamico, hanno ucciso 102 persone, in prevalenza di etnia curda, nel corso di una manifestazione per la pace ad Ankara. Le bombe sono cadute su ragazzi, su persone che cantavano per la pace… Dopo che le notizie hanno cominciato a circolare, il Governo, nel tentativo di coprire le sue negligenze, ha imposto un blackout mediatico sugli attentati di Ankara: ma non ha cambiato granché, visto che viviamo in un costante blackout mediatico a causa della censura. La nostra fonte di informazione più preziosa, come al solito, è Twitter, e quei pochi giornali di sinistra e filocurdi che hanno dichiarato di non voler rispettare il divieto. Secondo queste notizie, lo Stato aveva indizi a sufficienza sugli attentatori. Erano sulla lista dei soggetti pericolosi dell’Organizzazione nazionale di intelligence, il Mit, e anche la polizia li conosceva. Hanno semplicemente deciso che non gli importava? In un Paese dove tutto l’apparato statale, con i tribunali, i servizi segreti, le forze di polizia e l’esercito, è mirato a un unico scopo, mantenere al potere un unico uomo, è possibile.
Ma è ancora peggio di così. Tayyip Erdogan e il suo partito, gli islamisti dell’Akp, hanno creato un clima politico che sta legittimando la violenza contro gli oppositori del loro Stato di polizia. Lo Stato sta diventando sempre più violento verso i curdi, visti come il pericolo politico maggiore, e gli scontri con la guerriglia curda del Pkk sono la principale fonte di violenze nelle province curde.
Non ci siamo ancora ripresi dallo shock della strage di Ankara, ed è facile perdere il controllo sentendo Erdogan che dice: «Se date la colpa a me, siete con i terroristi». Stiamo tutti cercando di mantenere la calma e non perdere la speranza fino alle elezioni che si terranno oggi. I sondaggi sembrano indicare che il 1° novembre ci troveremo con una situazione del tutto simile a quella che già abbiamo, con nessuno dei partiti che avrà la maggioranza sufficiente per formare il Governo da solo. Anche solo un piccolo calo dei consensi per l’Akp (che ha preso il 40,9 per cento alle elezioni di giugno) avrebbe un impatto psicologico enorme.
È incredibile quanto è cambiato il Paese nei tredici anni di potere incontrastato dell’Akp. I mezzi di informazione sono stati sistematicamente messi a tacere, giornalisti e oppositori sono stati incarcerati, il sistema scolastico è stato trasformato, convertendo molte scuole pubbliche nelle cosiddette imam-hatip, scuole professionali che formano imam per le moschee. Tayyip Erdogan e l’Akp si sono creati il proprio elettorato, negli ultimi tredici anni. (Alle elezioni del 2002, l’Akp aveva preso il 34,63 per cento dei voti: dopo, la percentuale è cresciuta a ogni elezione.) Ci sono margini, quindi, per sperare che le cose cambino in meglio.
Tezer Özlü aveva ragione: la Turchia è la patria di molti che vogliono ammazzarci. Ma com’è scritto su un enorme cartello che ho visto l’altro giorno appeso in una stradina di Beyoglu, a Istanbul: «Siamo in lutto. Non siamo spaventati».