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 2015  novembre 01 Domenica calendario

Ritratto di Giulia Maria Crespi

L o scorso 6 ottobre, osservare da vicino una celebre protagonista della borghesia illuminata milanese, che a 92 anni scatta in piedi e applaude freneticamente gli interpreti e il regista dell’Odissea di Robert Wilson, al Piccolo di Milano, provocava un moto di commozione e un lampo di tenerezza. Anche perché quella che un tempo chiamavano (e chiamavamo) la «zarina», in realtà è un personaggio straordinario, fuori dal tempo. Chi sapeva, per esempio, che Giulia Maria Crespi, pazza d’amore, in viaggio di nozze con il suo primo marito Marco, morto in un incidente quattro anni dopo il matrimonio, e padre dei suoi due gemelli Aldo e Luca, riuscì a salvarsi in Giamaica da una tempesta nascondendosi in una grotta? E immaginare, come ha scritto nel suo libro, che lei nella grotta si sentiva Nausicaa con Ulisse?
Romanticherie da sogno nostalgico? No, è tutt o vero, perché questa donna che vive innervata nella grandezza e nelle bassezze del nostro Paese, che ha conosciuto geni e miserabili, onesti e malandrini, uomini verticali e invertebrati, pretendendo sempre d’affidarsi all’intuito e spesso scivolata in una delle sue inevitabili trappole, ha deciso di confessarsi.
Lo ha fatto a modo suo, con un libro autobiografico che ha un titolo indicativo e forse volutamente ambiguo, Il mio filo rosso (Einaudi), ma è in sostanza il diario di una lunga vita vissuta con passione spesso estrema, sui binari di una contraddizione: sentirsi parte dell’Italia che conta, che decide, quindi viene percepita come arrogante; ma in fondo manifestare tutta la fragilità e l’incertezza di chi rifiuta l’idea di un mondo pieno di lupi famelici, dominato dal dio denaro e dal cinismo.
C’è un segreto, che non è neppure un segreto perché lo sanno in tanti: Giulia Maria non è andata a scuola come tutti i bambini, i giovanetti, i liceali, gli universitari. Il ceto imponeva i precettori, gli educatori privati. Ecco perché Donna Giulia, così la chiamano in tanti anche oggi, non ha avuto il quotidiano contatto e il confronto, sempre importante e spesso spietato, con i suoi coetanei. Ha perso la gavetta della vita, anche se parla perfettamente tedesco, inglese e francese, legge Goethe e freme per la musica di Wagner. Ha goduto insomma di tutti i privilegi, però ne ha sofferto, e quei privilegi, alla fine, li ha pagati amaramente.
Chi ama in profondità il «Corriere della Sera», come chi scrive, grato di un fedelissimo rapporto che dura da oltre quarant’anni, non può non sentire affetto per questa Signora borghese. Che ha vissuto, dall’interno, prima ragazzina silente, poi protagonista, gran parte delle tumultuose vicende di un giornale che rappresenta davvero un’istituzione, come diceva una delle sue firme più illustri, Alberto Cavallari. Un giornale che ha scritto, raccontato e spesso subìto la storia del nostro Paese.
Il «Corriere» ha avuto, nella sua lunga storia, un condottiero mitico, probabilmente irraggiungibile, Luigi Albertini, che fu allontanato dopo decenni di direzione dalla proprietà Crespi per le pressioni e le minacce del regime fascista. Farinacci era furibondo. Ci fu chi sibilò: «Ci mettiamo poco, se non cacciate Albertini, a mettere due bombe e far saltare il palazzo del “Corriere”». Personaggio molto difficile, il direttore, così duro e severo che allora (racconta Giulia Maria) «l’edificio di via Solferino 28 veniva chiamato da alcuni “il regno del terrore”». Albertini, intransigente persino con se stesso, sapeva però dire sonori «no» al potere.
Il «Corriere», dopo decenni di successi, e in qualche caso di trionfi alternati a crescenti difficoltà, verrà poi macchiato – dopo l’uscita di scena dei Crespi – dallo scandalo dolorosissimo della loggia massonica P2. Ma è sempre in qualche modo risorto. Ammaccato, ma vivo e autorevole.
Questo libro è il taccuino di una vita innervata negli entusiasmi spesso infantili della «zarina», che immaginava un giornale spregiudicato, obiettivo e «pensativo» (come direbbero gli spagnoli), dove la verità è sempre rivoluzionaria. Tuttavia, un nugolo di volte Giulia Maria si ritrova a nuotare nel mare dei più velenosi intrighi di potere. All’inizio, come silenziosa testimone di incontri e riunioni in via Solferino, fino a diventare accomandataria, quindi prima responsabile: della linea e dei bilanci. Impresa non facile, per un’istintiva che pesta i piedi, che vive perennemente in bilico fra slanci e disperazione, che si circonda di chi le piace, ma che è anche capace di ammettere l’errore.
Nei suoi anni di regno solferiniano l’accusano di tutto. Montanelli, alla fine, la definisce una «dispotica guatemalteca»; c’è chi si inventa persino una storia d’amore con Mario Capanna, leader del Sessantotto studentesco milanese, che lei incontrerà di persona soltanto pochi anni fa. Con il suo secondo marito, l’architetto-partigiano-artista Guglielmo Mozzoni, crea un sodalizio straordinario.
Giovanni Spadolini, con il quale Giulia Maria aveva tessuto un’amicizia, almeno fino al suo licenziamento, la chiamava «la fanciullina», e per tanti aspetti era una definizione azzeccata. Dino Buzzati la affascinava, come Guido Piovene. Ma era con Montanelli che aveva un rapporto particolare: il padre di Giulia Maria aveva pagato (come lei racconta) la sua liberazione da San Vittore, dove era stato rinchiuso dai nazifascisti. E in tutte le vicende successive il giornalista italiano numero uno (tale era e tale è rimasto) era sempre ascoltato, e il suo parere tenuto in altissima considerazione. Almeno fino alla cacciata di Spadolini, alla nomina di Piero Ottone, e al successivo licenziamento di Indro, che non lesinava attacchi furibondi contro la proprietà e la direzione del «Corriere». Anzi, più contro la proprietà che contro il nuovo direttore. La Signora Crespi ritiene che, in fondo, vi fosse il desiderio del principe della penna di diventare il timoniere della corazzata «Corriere».
Ma quel che più colpisce è l’ultimo capitolo della lunga esperienza di Giulia Maria in via Solferino. Le speranze riposte in Agnelli e Moratti per salvare l’azienda («davanti a Gianni, amico d’infanzia, che mi aveva promesso di non vendere le sue quote per cinque anni, mi inginocchiai e gli baciai la mano», racconta nel libro), la vendita, l’ingresso di Rizzoli, la P2.
E poi l’ultima parte del libro-confessione, quella in cui la Signora Crespi, pronta a cominciare una nuova vita, si lancia con un’energia raddoppiata: la fondazione del Fai, di cui oggi è presidente onorario, la conversione dell’azienda agricola di famiglia dai metodi tradizionali alla biodinamica «per sentir di nuovo gracidare le rane», che i veleni avevano sterminato. Sua è l’intuizione che non serve salvare i beni architettonici, se non si combatte parallelamente per la salvaguardia della nostra Madre Terra. In sostanza, dobbiamo proteggere il nostro ambiente deturpato e depredato dal potere economico-finanziario.
Libro che si divora. Giulia Maria Crespi, 92 anni, almeno 9 tumori primari, è la dimostrazione che chi ha coraggio e perseveranza mantiene in vita e consolida anche il muro delle difese immunitarie.