Corriere della Sera, 1 novembre 2015
Il charter precipitato sul Sinai. La metà dei cadaveri era ancora imbragata ai sedili, con i cellulari in tasca che squillavano
DAL NOSTRO INVIATO
GERUSALEMME Ci ha messo 23 minuti per salire a 9.400 metri. Ce ne ha messi cinque per sparire dai radar e precipitare quasi in verticale, duemila metri al minuto. Nella luce incerta dell’alba, i beduini del deserto hanno visto soltanto il cielo tagliato da una scia di fumo nero. Alla torre di controllo del Cairo, dicono d’aver sentito solo la voce agitata del comandante Valery Nemov: abbiamo un problema tecnico, tentiamo d’atterrare a El Arish... L’ultima comunicazione. Poi il pilota ha capito che le sue dodicimila ore di volo terminavano lì, assieme alle vite degli altri 223 a bordo. Quasi tutti russi, diciassette bambini compresi.
Le squadre militari egiziane hanno trovato l’Airbus 321-200 della Metrojet spezzato in due parti: la coda bruciata, la carlinga accartocciata. Centoventi passeggeri erano ancora legati ai sedili: nelle tasche di alcuni continuavano a squillare i cellulari, un soccorritore ha detto d’aver udito lamenti fra le lamiere fumanti. Gli altri corpi erano semicarbonizzati, sparsi fino a quattro chilometri. L’aereo s’è schiantato nella zona di Hassana: mancavano 70 chilometri alla pista, all’atterraggio d’emergenza. Pochi minuti prima, una passeggera aveva mandato un sms premonitore al marito: «Mi sto imbarcando. Dio sia con me».
Caduto o abbattuto? Il charter 9268 Sharm el Sheikh-San Pietroburgo non sarebbe nemmeno un mistero, se non fosse precipitato sul Sinai jihadista. E se il governo egiziano, passato un minuto, non si fosse affrettato a negare addirittura il disastro. E se l’Isis, poche ore dopo, non avesse rivendicato «in risposta agli attacchi russi che hanno ucciso centinaia di musulmani in Siria». E se ieri sera tre grandi compagnie di bandiera, Lufthansa, Air France e Klm, non avessero deciso di cancellare per prudenza quella rotta «finché non si chiarirà l’accaduto». C’è in rete un video: sul sonoro – «voi che ammazzate sarete ammazzati!...» —, si vede un aereo precipitare dopo essere stato colpito. Egiziani e russi, che indagano insieme dopo una telefonata fra il generale Al Sisi e Putin, giurano che è falso: probabilmente è stato un incidente, assicura il premier cairota Sherif Ismail, in mano le due scatole nere. «Nessun’attività irregolare», niente attentati. E men che meno c’entrano i tagliagole dell’Ansar Bait al Maqdisi, i combattenti per Gerusalemme che l’anno scorso han giurato fedeltà ad Al Baghdadi. Gente che ha già propagandato patacche, dice il premier. Comunque pericolosa, spiegano i fatti: è la sigla che rivendicò l’uccisione del pacifista italiano Vittorio Arrigoni, a Gaza, oltre all’unico attacco del Califfato in territorio israeliano (Eilat, 2012), al massacro di 30 poliziotti egiziani nel 2013, alla lunga battaglia che in luglio ha fatto 174 morti nella penisola...
Da qualche mese, l’Isis del Sinai ha ricevuto dalla Libia razzi anticarro (Kornet) e da contraerea (Igla-S), è riuscito ad abbattere qualche elicottero egiziano. L’intelligence del Cairo è sicura: in quella zona, nessuno ha armi capaci di colpire un volo d’alta quota. Gl’israeliani sono più cauti: ricordate i Grad modificati che l’anno scorso, in piena guerra di Gaza, costrinsero a chiudere l’aeroporto di Tel Aviv? Venivano dal Sinai.