La Stampa, 31 ottobre 2015
Il bambino che sin da quando ha due anni (ora ne ha dieci) è perseguitato da Equitalia: un’assurda storia di omonimia e sbadataggine giudiziaria. Purtroppo non è il primo caso, né il più grave
«Tutto ciò che ero riuscita a sapere è che a comprare quel cellulare era stato un omonimo di mio figlio: stesso nome, stesso cognome, solo che era di un’altra città, Casale Monferrato, e soprattutto non era nato nel 2005 come il mio bambino ma nel 1942». Amelia Iudicone, 41 anni, di Alessandria, in questi 8 anni con il Fisco che soffiava sul collo del figlioletto a partire da quando lui di anni ne aveva appena 2, sostiene che alla base del disguido che ha trasformato il suo bambino in uno dei più piccoli «morosi» d’Italia ci sia un antipatico caso di omonimia (confermato per altro ieri da H3G: «disguido nato da un’ utenza regolare intestata ad un signore del 1942, residente ad Alessandria che ha omesso di pagare canoni alla nostra Società e la tassa in questione»).
Nel 2010 per provare a «liberare» il figlio da Equitalia, la mamma presentò anche una denuncia per furto di identità. «L’ufficiale giudiziario mi spiegò dell’omonimo»: Amelia lo ricorda nella sua casa alla periferia di Alessandria, con in mano le cartelle esattoriali ormai consumate, e poi sussurra: «Chi mi dice che non l’abbia fatto apposta?». È anche per questo che non ha voluto saldare, per conto di altri, i debiti con l’Agenzia delle Entrate, nonostante si trattasse di soli 166 euro, la somma di tre fatture contestate. Riguardano l’acquisto, con contratto, di un cellulare H3G: secondo il Fisco a comprarlo fu, nel 2007, proprio il figlio di Amalia, che però all’epoca aveva 2 anni. È questo l’incipit di un’odissea che si è conclusa soltanto 8 anni dopo. Forse. Se da un lato infatti Equitalia e Agenzia delle Entrate sostengono di aver risolto il caso e provveduto allo sgravio già a marzo, dall’altro mamma Amalia resta diffidente e questa volta pretende garanzie: «Me l’avevano promesso anche nel 2010 dopo la visita dell’ufficiale giudiziario: quando si trovò di fronte il bambino disse che avrebbe presentato una relazione per chiarire la vicenda».
Ma poi il Fisco è tornato a bussare a casa della famiglia del piccolo ancora quest’anno: «La cartella ricevuta dal minore era dovuta al mancato pagamento della tassa di concessione governativa sull’abbonamento di un cellulare attivato anni fa, inserendo impropriamente il codice fiscale del bambino di Alessandria» puntualizza ora l’Agenzia delle Entrate: «Se è così – replica lei – lunedì mattina mi diano una liberatoria nella quale si mette nero su bianco che mio figlio sarà lasciato stare dal Fisco. Per sempre».
Nel mondo globalizzato e assurdo della burocrazia, fra un Pietro Longo di Fi, un Paolo Rossi che adesso è un onorevole Pd e un altro che fa il giornalista della Juve senza che nessuno dei due abbia mai giocato a calcio, non dobbiamo stupirci troppo, però, che oggi l’omonimia sia quasi una condanna. Se il piccolo di Alessandria s’è beccato il fisco alle calcagna da quando aveva due anni, a qualcun’altro è andata ancora peggio. Il tranquillo tecnico del cinema Arnaldo Benassi da Carpi, Modena, fu condannato in Francia alla pena della ghigliottina per una rapina a mano armata compiuta da un suo omonimo di Capri. Dopo un anno gli chiesero scusa, e meno male, ma il suo nome restò schedato lo stesso, con tanto di sentenza, negli archivi giudiziari per altri 30.
Tutto il mondo è paese. All’alba del fatidico venerdì 17 giugno 1983, quando scattò il terribile caso di ingiustizia più famoso d’Italia, mentre Vasco Rossi cantava «Una vita spericolata» e la Fiat lanciava la Uno, assieme a quello di Enzo Tortora, gli inquirenti spiccarono altri 855 ordini di cattura, incappando addirittura in 216 errori di persona, fra i vari Esposito e consimili.
Non c’è salvezza alla sordità delle carte, all’indifferenza angosciante della scrittura timbrata sui documenti. Giacomo Puccini, di Pontedera, da qualche anno non è più l’omonimo del grande compositore della Bohème e di Madame Butterfly, ma di un altro conterraneo con identici nome e cognome condannato a 800 euro di ammenda dallo Stato. E non importa che sulle schede ci fossero un’altra faccia e un’altra età. Il povero malato Mohamed Salim, in dialisi da una vita, ha perso il lavoro e il permesso di soggiorno perché accusato di «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina», assieme a 10 anni di guai giudiziari. Il vero Salim era albanese, mentre lui è bengalese, e aveva residenza e volto diverso.
Sembrano tutte storie impossibili. A Bellagio, dove si chiamano tutti Gilardoni e Gandola, in banca, al Credito Cooperativo, hanno deciso di affiancare i soprannomi del passato a quei cognomi. Così i Gilardoni sono detti «Maghetti», «Cilindra», «Mion», «Buffit», i Gandola «Africani», e i Bianchi «Cecchetti» e «Rucambul». E a Chioggia hanno pensato addirittura a un decreto ministeriale per rendere ufficiali i soprannomi. Ci sono più di 7mila Boscolo e quasi 3 mila Tiozzo su una popolazione di 50mila abitanti. Ai primi hanno aggiunto 190 soprannomi, dai Forcola ai Bachetto, e ai secondi più di 50, da Napoli a Campanaro. Pure il sindaco e il suo vice ora sono detti Pagio e Todaro. Disagi dell’omonimia. Se un Paolo Rossi è diventato grande comico chiamandosi come il re del Mundial, in Francia c’è un Lionel Messi, che gioca pure a calcio. Ma in quarta serie e fa il difensore. Perché nonostante i nomi e i cognomi restiamo tutti unici.