la Repubblica, 31 ottobre 2015
Il nuovo volto di Dylan Dog. Incontro con il disegnatore Lorenzo Mattotti
Il volto colpito da una luce multicolore sembra scomporsi in forme impossibili. Lo sguardo de L’urlo di Munch. Cosa sta succedendo a Dylan Dog? «Una cosa abbastanza difficile da immaginare: diventa a tutti gli effetti un personaggio di Lorenzo Mattotti, uno degli artisti più raffinati conosciuto in Italia e nel mondo, nella copertina dell’edizione “variant” del volume 350 della serie, per l’occasione tutto a colori, intitolato Lacrime di pietra disponibile per gli appassionati solo qui a Lucca Comics. Forse, se resterà qualche copia, verrà venduta online». Lo racconta Roberto Recchioni, curatore per Bonelli delle storie del personaggio inventato da Tiziano Sclavi. «Prosegue il solco delle “copertine d’autore” inaugurato l’anno scorso, sempre in occasione di Lucca da Gipi, ed è stato possibile grazie alla grande amicizia che univa Sergio Bonelli, Lorenzo Mattotti e Tiziano Sclavi, che tra l’altro ha voluto comprare immediatamente l’originale. Lui è dagli inizi un fan di Mattotti, da quando era un giovanissimo e sconosciuto disegnatore. Tra l’altro questa storia, scritta e disegnata da Carlo Ambrosini, è una delle più dure e “adulte” mai realizzate di Dylan». Dylan Dog in effetti, dai tempi di Memorie dall’invisibile, uno dei capolavori firmato Sclavi, è terreno di sperimentazione e d’incontro tra il cosiddetto “fumetto seriale” e quello “d’autore”. Lorenzo Mattotti, con il gruppo Valvoline, di cui facevano parte anche personaggi come Igort e Carpinteri, è stato proprio uno degli antesignani del graphic novel, il “romanzo grafico” che rivendica pari dignità con la letteratura. E poi l’America, il prestigioso New Yorker di cui ha appena firmato, la scorsa settimana, una copertina dedicata ai migranti. Alto, distinto, occhiali da sole, Mattotti racconta: «Quando ho iniziato al New Yorker era arrivata Tina Brown che ha fatto una grande rivoluzione: ha chiamato Françoise Mouly, la moglie di Art Spiegelman, come direttrice artistica. Lei conosceva bene il mio lavoro e così è iniziata la collaborazione che va avanti da ormai venticinque anni, anche dopo che sono cambiati vari direttori». La sua copertina per un personaggio come Dylan Dog ha stupito molti. La fila al padiglione della Bonelli per avere una sua firma sull’edizione limitata è interminabile. «E pensare che quando venivo a Lucca nel 1973 con Alberto Breccia e Ugo Pratt era un covo di carbonari, mentre ora è una grande festa. La mia copertina è molto “valvolinica” più che “bonelliana”. C’è un personaggio piuttosto inquietante che spruzza con un pennello il colore in faccia a Dylan Dog e lo fa diventare astratto, la faccia diventa una vera e propria pittura espressionista. Mi sono divertito a farla: io sono molto legato a Tiziano Sclavi (il creatore di Dylan Dog, ndr), quando ero molto giovane lui mi aveva dato la sceneggiatura di un western che, tra l’altro, si intitolava proprio Dylan Dog, e aveva cercato di farmi pubblicare per il Corriere dei Ragazzi, giornale per cui lavorava».
La tecnica usata è il suo marchio di fabbrica. «Matite e molti pastelli grassi per fare le pennellate. Sì, anche se spesso uso anche il bianco e nero. Anzi, a volte ho proprio bisogno di disintossicarmi dal colore. Ho fatto anche quattro o cinque schizzi in cui ci sono i vari passaggi della copertina». Il fumetto, secondo lei, in Italia è ancora considerato solo per ragazzi? «Paradossalmente negli anni Ottanta ci sembrava che non fosse più così, invece oggi mi sembra che per certi versi si sia tornati indietro. In realtà negli ultimi anni il fumetto ha avuto un’evoluzione enorme conquistando spazi, soggetti, argomenti. Un tempo esisteva solo l’avventura o il comico mentre oggi il fumetto può trattare di tutto, dall’autobiografia al reportage, dalla riflessione filosofica al diario personale. Insomma è un mezzo d’espressione completo. In Francia e in America viene trattato ormai da tempo con grande attenzione, in Italia invece mi sembra che non sia considerato letteratura ma, ancora, solo come un passatempo da leggere in tram...».
Forse, non a caso, da tempo Mattotti vive a Parigi. «È stata una scelta personale, non solo di lavoro: volevo vedere come si viveva in un altro paese. Di sicuro i giovani, quelli che stanno incominciando, se vogliono vivere solo con questo lavoro devono spostarsi. Qui in effetti ce ne sono molti anche perché c’è un’industria, una produzione e una concorrenza a un livello tale che comporta un grande salto di qualità: chi arriva a pubblicare qui deve essere molto bravo». Nemo propheta in patria. «Mah, non saprei. Posso solo dire che, tra l’altro, ci sarà una grossa mostra tematica in Bretagna ai primi di dicembre, organizzata da un museo di arte contemporanea, il Le Clerc (in questo momento c’è una retrospettiva su Giacometti, ndr). Spero di riuscire a portarla anche in Italia».
L’incontro tra Mattotti e il mondo Bonelli è avvenuto grazie all’attuale direttore Mauro Marcheselli. «Ci conoscevamo perché quando passava da Parigi veniva sempre a trovarmi con Sergio Bonelli, che con me è sempre stato di una gentilezza squisita». Un’intera storia di Dylan Dog fatta da Mattotti sarebbe stata molto interessante. Bonelli ha mai cercato di convincerla? «Al contrario. Lui diceva: “Ma no, tu non puoi fare i miei libri, sei un artista. Non ho mai capito se era un complimento oppure no (ride, ndr). Ho sempre avuto questo dubbio…».