la Repubblica, 31 ottobre 2015
Luca Argentero e la montagna, una passione di famiglia
«Ho imparato a sciare ancor prima che a parlare. Sono nato in aprile, a luglio ero già a Courmayeur». Per Luca Argentero la montagna è una questione di famiglia. «Una passione di mio nonno ereditata da mio padre e da mio zio, poi trasmessa a me».
L’attore torinese, classe 1978, si racconta seduto a un tavolino all’aperto in un bar di Testaccio.
Sorseggia, sportivo dalle sane abitudini, succo d’arancia appena spremuto. È tornato da qualche settimana dall’Himalaya, dov’era volato all’improvviso, per necessità: «Una fuga dalla vita, da tutto e tutti. Ho avuto un momento di affaticamento fisico, psicologico, emotivo. Così mi sono fermato: ho comprato un biglietto, ho volato, ho camminato.
L’India è un paese che mi piace molto, c’ero andato altre volte. Ero stato a Manali, nella parte Est, stavolta invece ho scelto Rishikesh, per gli indiani una stazione rinomata, nel pre-Himalaya: non c’è l’altezza, è sotto i tremila metri, ma ci sono foreste sconfinate e una frescura perfetta per bellissime camminate».
Per Luca Argentero la montagna è sinonimo, al tempo stesso, di solitudine e compagnia.
«La compagnia è quella dei miei cari: mio zio, mio padre, mia sorella. Ma poi, quando cammini per dieci ore, anche se hai accanto qualcuno, in realtà hai tempo per stare solo con te stesso. Ti concentri su dove devi mettere il piede, un passo dopo l’altro ed entri in uno stato quasi di trance, come la respirazione yoga. E allora svuoti la testa e diventi libero di concentrarti su un unico pensiero, senza interferenze. L’aria è pura e non ci sono rumori: solo il tuo respiro e un passo dopo l’altro».
L’attore fa sue «tutte le metafore sulla montagna: il superamento dei propri limiti, il raggiungimento di una vetta e quindi di un obiettivo, la possibilità di vedere le cose dall’alto. Mi piace sempre dare un senso a quello che faccio».
Racconta le origini di un rapporto nato 37 anni fa. «Mio nonno, che era un costruttore, edificò una casa a Courmayeur negli anni Cinquanta perché era appassionato di montagna: alle pareti ci sono ancora le sue foto in mezzo a pendii bianchissimi, con gli sci di legno legati con le corde. Mio papà e mio zio sono entrambi architetti, ma mio zio ha lasciato lo studio per fare la guida a tempo pieno. Mio padre invece fa il costruttore, ma conserva il tesserino da maestro e si aggiorna ogni anno».
Squaderna i primi ricordi: «Il primo paio di sci l’ho messo a ventidue mesi. Conservo la foto in cui mi afferro al dito di papà, alto un metro e novanta, sulla porta di casa. Da lì si attraversava un pratone e si era subito sul percorso baby con un piccolo skylift su cui, mi raccontano, mi sono addormentato molte volte con gli sci ai piedi». S’apre un vaso di Pandora: «I ricordi più belli della mia infanzia e della mia vita sono legati a doppio filo alla montagna. Courmayeur è casa, uno di quei luoghi in cui cresci, vivi le tue avventure. Ci ho trascorso infinite estati con mia nonna. Lei ancora oggi, ha ottant’anni, quando inizia il caldo lascia Torino e da sola, autoradio a palla, guida fino a Courmayeur: tre mesi a camminare con le amiche, a fare gite. Mio zio invece ha trasformato la passione in lavoro: negli anni Ottanta ha fatto il K2, è un alpinista di livello, una guida. E io e mia sorella siamo molto appassionati».
La montagna è legata soprattutto al rapporto con il padre. «Mia madre è siciliana, la neve non è il suo mondo. Invece con mio padre conservo ricordi lontani che affianco ad altri che continuo a costruire anche oggi. Mi resta l’immagine di quando nei percorsi più difficili mi toglieva gli sci, mi caricava sulle sue spalle e mi portava giù così. Poi c’è stato il periodo dell’adolescenza, quando cercavo l’indipendenza e in montagna ci andavo con gli amici. Ai tempi del liceo saltavamo scuola, prendevamo la macchina e andavamo con gli snowboard, i miei mi vedevano come l’eretico».
Con la maturità il rapporto paterno si è rinsaldato. «Quest’estate ho raggiunto il mio primo quattromila, un’avventura bellissima: siamo andati tutti sulla cima del Gran Paradiso con mio zio, mio papà e mia sorella. Man mano che passa il tempo me ne accorgo e so che mio padre non ci andrà per altri cinquant’anni e voglio approfittare per passare più tempo possibile con lui nel luogo che ci lega di più. Ci siamo fatti un programma che è Paradiso- Rosa-Bianco e poi il Cervino. Fare i quattromila più importanti d’Europa è l’obiettivo».
La passione per la montagna si riflette anche nel lavoro. «Da spettatore non vedo l’ora di vedere l’Everest. Ma soprattutto spero che veda la luce lo splendido progetto di Daniele Vicari che si chiama Bianco e racconta la storia della tragedia più famosa dell’alpinismo moderno, quella del pilone centrale del Freney nel 1961, durante la discesa di Walter Bonatti con altri due italiani e quattro francesi. Quando ho fatto i provini per uno degli altri italiani ho spiegato a Vicari perché per me questo set è importante: “Parli di un pezzo di montagna che io vedo dalle finestre di casa mia da quando sono nato». Luca Argentero ha firmato da produttore la serie, andata in onda su Sky Uno, Pericolo verticale, otto puntate al seguito dell’elisoccorso.
«Con Simone Gandolfo abbiamo scritto il programma pensando alle nostre esperienze e anche alle nostre disavventure: pensando a quella volta in cui mi sono perso, ho spiegato il perché delle misure di sicurezza, l’imprevedibilità della montagna, la mutevolezza improvvisa del tempo».
Se da un lato mantenere il sangue freddo è l’imperativo e anche il grande insegnamento della montagna, dall’altro lato, «il pensiero irrazionale ti rivela che è proprio il senso del pericolo il grande fascino di quei luoghi. L’idea che, ogni volta, c’è una piccola grande sfida con madre natura e con te stesso».
La vita di attore permette di programmare poco, mentre la montagna, spiega Argentero, ha bisogno di allenamento, continuità, stagionalità «spesso sono costretto a non frequentarla perché sto via per tre mesi, e così devo saltare un anno».
Ma è quello il luogo perfetto per liberarsi dell’ego, quando diventa ingombrante. E di tante altre cose: «Il viaggio in India mi ha fatto scoprire che negli ultimi anni mi sono massacrato in troppe attività, oltre al set. Alcune, come la mia Onlus, sono imprescindibili, ma altre, penso al lavoro di produttore, ho dovuto mollarle: il fisico oltre un certo punto non può andare. Non voglio più privarmi dei fine settimana passati a camminare con mio padre in montagna».
Né di momenti di vita che restano dentro: «La preghiera della sera a Rishikesh, dove nasce il Gange, ottocento persone vestite di giallo in riva al fiume che alzano le mani davanti al tramonto è un’immagine che non scorderò mai».