la Repubblica, 31 ottobre 2015
Guerra di Siria, adesso anche gli Stati Uniti invieranno truppe di terra. L’obiettivo di Obama è negoziare una soluzione politica senza lasciare a Putin il monopolio dell’azione militare
Nessuno parla di fallimento. Ma le scarne dichiarazioni dei protagonisti fanno capire che siamo ancora molto lontani da una soluzione per la guerra in Siria. Otto ore di fitti confronti e di dialoghi bilaterali tra i 17 ministri degli Esteri e i rappresentanti della Ue e dell’Onu hanno prodotto un solo risultato: la scelta deve essere politica. Per compierla bisogna coinvolgere tutti gli attori di un conflitto che ha prodotto in 4 anni 250mila morti e 11 milioni tra rifugiati e sfollati. Ma i termini della soluzione sono ancora vaghi: nel documento finale nessuno nomina il presidente Bashar al Assad, sul cui destino c’è ancora una contrapposizione durissima, mentre si parla di “elezioni” da tenere in futuro senza però specificare chi vi sarà ammesso.
I Grandi lasciano Vienna e si danno appuntamento tra due settimane per una nuova serie di colloqui ai quali saranno presenti anche i rappresentanti della galassia dei ribelli e esponenti del regime siriano. Russia e Usa hanno chiesto all’Onu di convocare al più presto l’opposizione e i rappresentanti del regime di Damasco per «approvare una nuova Costituzione e indire delle elezioni». Entrambi concordano sul fatto che la Siria «resti uno Stato secolare e unito». Si pensa ad una tregua delle armi di sei mesi. «Ma le strutture terroristiche», ha chiarito il ministro degli Esteri Lavrov, «saranno escluse».
Mosca ha fornito una lista di 38 gruppi che ritiene affidabili ad una trattativa; stessa cosa ha fatto Ryad. Washington la fornirà nei prossimi giorni. Ma spiazza l’attività diplomatica delle prossime ore con una mossa che punta a non lasciare campo libero alla Russia: spedirà nel nord della Siria una cinquantina di consiglieri con “compiti di addestramento”. Si avvera dunque l’incubo del “boots on the ground”, forze speciali per gestire e guidare i miliziani del quasi estinto Free syrian army (FSA). Mosca protesta e ricorda: «La lotta al terrorismo deve essere basata sul diritto internazionale».
Si è parlato a lungo del vero nodo che lega il futuro della Siria. Si sa che Usa, assieme a Turchia e Arabia Saudita, sostenuti da Francia, Inghilterra e adesso anche Italia, chiedono l’immediata uscita di scena di Assad; la Russia, appoggiata dall’Iran, pretende che il raìs di Damasco partecipi alle trattative di pace.
La strada per un dialogo è imboccata. Se avrà successo dipenderà molto da quello che accade sul terreno. Obama ci entra con gli scarponi delle sue forze speciali. Putin lo ha già fatto con i suoi missili e le sue bombe.
Daniele Mastrogiacomo
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Negoziare una soluzione politica per la guerra in Siria, senza lasciare a Vladimir Putin il monopolio dell’azione militare. È questo l’arduo esercizio che sta tentando Barack Obama. Ieri il presidente americano ha dato il via libera all’impiego di reparti speciali americani in Siria. Saranno forze limitate, ma si tratta pur sempre di una svolta. Che può servire al tavolo di Vienna. Dove lo stesso Obama ha voluto ci fosse per la prima volta anche l’Iran. Un altro nemico o ex-nemico, che l’America vuole riportare in gioco perché senza il contributo iraniano la “transizione politica” verso il dopo-Assad non sarebbe praticabile. Dopotutto il primo Congresso di Vienna, quello del 1815, instaurò il principio di un “equilibrio tra le potenze”. Che oggi sembra guidare Obama: rassegnato al fatto che una Pax Americana in Medio Oriente non è realistica; dunque è meglio costruire un bilanciamento di potenze regionali che assicuri qualche forma di stabilità. Già il fatto di portare attorno allo stesso tavolo di Vienna gli eterni nemici Iran, Turchia e Arabia saudita è stata un’impresa notevole, gran parte merito del segretario di Stato John Kerry.
Ciò che accade sul campo in Siria e le manovre diplomatiche a Vienna, sono le due componenti del Grande Gioco in atto. Nella guerra civile siriana Obama è alle prese con la novità russa, che limita il suo campo di azione. Da quando Putin ha lanciato i suoi raid aerei in Siria, la coalizione guidata dagli Stati Uniti è stata ridotta a un ruolo marginale. La prova è la forte diminuzione dei bombardamenti aerei operati da forze Nato. A luglio gli Usa e alleati compivano in media 12 raid al giorno, da quando è entrata in azione la Russia il numero è sceso a meno di tre al giorno. Il Pentagono e la Nato ammettono che la Russia sta esercitando di fatto un’azione di interdizione aerea nei loro confronti. Anche perché Obama ha detto chiaramente che «America e Russia non combatteranno la nuova guerra mondiale tra di loro in Siria», e così facendo ha ammesso una “avversione al rischio” – tipica delle liberaldemocrazie occidentali – che Putin interpreta come una debolezza.
La piccola svolta annunciata ieri, è un tentativo di Obama di raddrizzare un rapporto di forze così squilibrato. L’annuncio che le “American Special Operations” – reparti speciali – entreranno in azione contro le forze dello Stato Islamico (Is), è un cambio di rotta rispetto alla solenne promessa di non inviare più truppe terrestri. Si tratta di reparti molto piccoli, una cinquantina di militari, precisa la Casa Bianca. Inoltre questi commando combatteranno soprattutto in appoggio ai peshmerga curdi, da sempre l’esercito più agguerrito e più affidabile per gli americani. Inoltre Obama ha chiesto alla Turchia l’autorizzazione a mandare nella base aerea di Incirlik dei cacciabombardieri F-15 e degli A-10 Whartog, anche questo un segnale per i russi. Sull’efficacia dei reparti speciali americani contro lo Stato Islamico, i precedenti sono contraddittori. In passato ci furono già un paio di raid, uno culminato a maggio con l’uccisione di un capo dell’Is (Abu Sayyaf), un altro invece fallì tragicamente nel tentativo di libe- rare l’ostaggio James Foley, poi decapitato. Per quanto operata con il contagocce, la mini-escalation americana in Siria già suscita delle resistenze. Un esponente autorevole del partito democratico, il senatore della Virginia Tim Kaine, ha ricordato che «il presidente ci aveva promesso di non mandare più truppe sul terreno». Lo stesso Kaine denuncia «l’incoerenza di perseguire una soluzione diplomatica a Vienna e al tempo stesso aumentare la nostra presenza militare in Siria». Su quest’ultimo punto però l’incoerenza non è di Obama. A Vienna attorno al tavolo ci sono almeno due governi – Russia e Iran – che dispiegano forze di combattimento in Siria. Il tentativo è quello di non lasciarle padrone del terreno. A Vienna uno dei compiti più ardui è convincere Russia e Iran che il nemico numero uno, il pericolo comune da combattere, è lo Stato Islamico. Per ora un accordo si delinea sull’obiettivo di una “transizione politica”. Obama è disposto ad accantonare la pregiudiziale che Assad vada via subito. L’Amministrazione Usa, così come il governo italiano ed altri europei, vogliono scommettere sulla possibilità che “Mosca diventi parte della soluzione”, non parte del problema.
Federico Rampini