Corriere della Sera, 31 ottobre 2015
Un simposio di parole, d’arte e d’amore. L’autentico nutrimento secondo Walter Siti
Dal punto di vista del cibo della mente, nella casa dove sono nato il frigorifero era quasi vuoto: c’erano la «Settimana enigmistica», su cui si esercitava mio padre, e «Sogno», la rivista di fotoromanzi che leggeva mia cugina. Ma c’era la campagna intorno, c’era una contadina piena di dolcezza – c’erano le violenze sugli animali, c’era un canale su cui galleggiavano bidoni pieni d’avventura. Quindi mi correggo: dove sono nato il cibo c’era, ma mancavano gli enzimi per digerirlo. Avevo imparato a leggere molto precocemente, a tre anni, compitando la parola «FIAT» sui cerchioni di una Topolino. «Fiat», la parola della creazione e quella che Maria risponde all’angelo. Credevo che gli enzimi si potessero estrarre soltanto dalla parola scritta. Vennero i libri di scuola, sempre più complicati ma mai abbastanza per me (strizzavo il manuale del Lamanna, chiudevo gli occhi nella speranza superstiziosa che un clic mi avrebbe fatto intendere anche quello che sui filosofi non veniva detto); arrivò il Macbeth letto sotto gli alberi d’estate, arrivarono i Fratelli Karamazov.
Uomini muscolosi in canottiera mi facevano battere il cuore: non so come, per un intuito concesso come una grazia, capii prestissimo che con loro avrei fatto l’amore, ma che era questione di sguardi e di assoluto molto più che di sesso. A nutrirmi, in quel difficile frangente, fu una doppia passione che mi prese: cominciai a collezionare i numeri dei «Maestri del colore», e contemporaneamente a divorare libri su Dio. I tre filosofi di Giorgione, con quei gialli dorati e quei rossi caldissimi (e una montagna azzurra in lontananza); i coniugi Arnolfini di Van Eyck col loro specchio convesso, le filatrici di Velazquez nei vestiti resi vibranti dalla ruota che gira. Il ciuffo di Rembrandt giovane, una brocca dipinta da Vermeer. Era il paradiso tradotto sulla Terra, una realtà Altra nella quale ci si poteva rifugiare come in un abbraccio, ceramiche e tessuti e carni da mangiare come zucchero filato. Il tempo era un accessorio. Tra i libri di religione, mi accanivo sui Vangeli gnostici e sull’opposizione eros/caritas esposta da Nygren: cercavo le parole su Dio, ma non cercavo Dio. Pur di sfuggirLo, lo squadernavo nelle chiacchiere degli uomini di tutti i tempi e paesi: il Grande Veicolo e i Buddha spirituali, il principe Arjuna e i consigli di Krishna, Alce Nero e il dio d’acqua di Griaule.
Fu il tempo dei maestri, purché non mi costringessero a cambiare: per questo ne spiavo le magagne, li svilivo prima di ascoltarli – Francesco Orlando e i suoi tic quasi pazzoidi di auto-repressione, Franco Fortini e i suoi irrigidimenti politici fuori luogo. Alla privazione infantile reagivo con isterica bulimia, la biblioteca della Normale di Pisa era allo stesso tempo il mio parco giochi e il mio gulag (tanto cibo potenziale, troppo, che qualche anno dopo fu significativamente trasferito nella vicina Torre della Fame di ugoliniana memoria). Uomo di libri, uomo di carta: ma da qualche parte lo capivo che il cibo per la mente odia i supermercati ben ordinati. Nei «rapporti umani» accumulavo errori su errori, al «bene comune» mi interessavo soltanto per quel che poteva venirmene in tornaconto. Ma una mano gigantesca e mostruosa mi guidava dall’alto, mi impediva di far calare troppo la tensione: ero capace, con mia meraviglia, di decisioni improvvise e coraggiose, di scarti rispetto alle buone maniere, spinto da una voglia non banale di spendere bene i miei talenti.
Il cibo più nutriente divenne allora lo stile: le parole che avevo compitato per trent’anni potevo forse usarle per pavimentare un sentiero nuovo, che si inoltrasse nel bosco. La foresta pubblica chiamata «mutazioni del contemporaneo» smise di essere puro spavento e mi apparve come una pianura da esplorare con curiosità. Un po’ più concentrato di prima, più attento ai paradossi, un po’ meno costretto a nascondermi tra le pieghe di un’intelligenza autolesionista. Arriva un momento, nella vita, in cui conta più il cibo che si rifiuta di quello che si divora. Mi ero avvelenato con così coscienziosa libidine e così a lungo, che mi era un po’ più facile distinguere il cibo avvelenato nel banchetto pantagruelico, più o meno virtuale e «social», con cui oggi si tenta di ubriacarci. Se c’è qualcosa di cui i miei libri possono vantarsi, è di aver saputo pronunciare qualche «no».
Se proprio dovevo essere un uomo di carta, che almeno riuscissi a «mettere su carta», salvandoli dal tritarifiuti, i momenti della mia vita che avevo considerato più dispersivi e disperati. La mia squallida nevrosi da competizione, il mio amore mancato per la famiglia, l’immoralità che ha orientato le mie scelte, le sofferenze stupide e quelle decenti, tutta la bellezza che ho sciupato senza possederla. Finalmente, il cibo da cercare non stava più in biblioteca: ho fatto i miei «sopralluoghi» in territori che non mi appartenevano, nelle borgate romane e negli hedge fund milanesi, negli studi televisivi e nelle mense dei diseredati. Gli scrittori (purtroppo, ma anche per fortuna) il cibo che gli serve lo rubano. Houellebecq, Easton Ellis, Philip Roth, Busi, Carrère: non cibo ma gente che mangia a un tavolo più ricco del mio, e che è bello vedere mentre mangiano. Il nostro onore non è gareggiare ma guardare oltre.
Nella chiesa di Sant’Eustorgio, qui a Milano, ci sono degli affreschi di Vincenzo Foppa dedicati ai miracoli di San Pietro Martire (un domenicano esorcista del Duecento); in uno, il santo smaschera una finta Madonna catara mostrandole l’eucarestia. Si vede la Madonna sull’altare col Bambino in braccio, in una classica iconografia devozionale; ma sulla testa della Madonna spuntano due corna marroni, e due piccole corna ornano la testa del piccolo Gesù. Mi ci sono fermato un quarto d’ora, credo che ci tornerò, ne sono vagamente ossessionato; c’è un nodo, lì dentro, da cui sento che nascerà il mio libro nuovo. Questa, nell’attimo presente, è la mia mensa.