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 2015  ottobre 31 Sabato calendario

Alberto Moravia, un conformista dell’anticonformismo. Sfogliando l’epistolario giovanile in uscita

Aimez-vous Moravia? Vi viene il nervoso a solo sentirlo nominare? Allora questo libro fa per voi, non potete ignorarlo. Pensate, in una delle prime pagine si legge: «Voglio finire il romanzo (leggi Gli indifferenti) prima dell’anno nuovo...»; poi aggiunge «ma credo che non ci riuscirò perché dopo averlo finito mi toccherà ricominciare e trasformare la prima parte». «Che rompiscatole!» scapperà detto a qualcuno. Rompiscatole o meno, quando lo incontriamo autore d’una breve lettera, datata 23 novembre 1926 e indirizzata a Morra di Lavriano, Alberto Moravia non è sicuro di niente. Si firma ancora Alberto Pincherle. Ha diciannove anni, è metà ragazzo e metà uomo. Meglio ancora, è metà scrittore e metà lettore instancabile. Dostoevskij, di cui ha divorato L’idiota donatogli dal rivoluzionario russo d’origine italiana Andrea Caffi, è il suo astro. Lo eccita, gli dà la carica.
Diciamolo subito. La prima impressione che si riceve, leggendo questo epistolario scritto di getto e senza pesare le parole, al modo in cui si parla agli amici per telefono, è di sorpresa e di curiosità. Si ha l’impressione che l’autore, «nato indubitabilmente per narrare», quando non parla del suo lavoro assuma un tono impaziente, un po’ annoiato. Se poi l’argomento sono i suoi amori sovreccitati e ingenui per due donne affascinanti, quali dovevano essere Silvia Piccolomini prima e poi Lélo Fiaux, l’atteggiamento cambia. Alberto crea il personaggio Alberto e si mette nei suoi panni. Palpita con lui, lo accompagna come in un racconto. Il cuore è un’aggiunta successiva, a interessarlo sono gli sviluppi della love story e gli eventuali colpi di scena. È crudele pensare cosi? Forse, però, ci si avvicina alla verità.
Per molti grandi scrittori la vita è la prova generale di quella che sarà poi la pagina. Pensate a Hemingway. Moravia, si osserverà, non amava Hemingway perché anche lui faceva della vita un copione, ma arrivando a conclusioni diverse. Tanto per cominciare Hemingway era un conquistatore e Alberto voleva viceversa venir conquistato.
Una volta, nel corso di un’intervista, mi disse: «Io ho una sola religione: la letteratura». Sul momento mi parve una risposta di facciata, qualcosa che un autore della sua importanza diceva a uso dei futuri biografi. Non era così, però. Moravia, in quelle quattro parole, aveva condensato tutta la verità che un uomo può dire parlando di sé. L’obbiettivo per lui era raccontare, raccontare e ancora raccontare.
Lo conferma l’epistolario, quasi un’involontaria confessione, che adesso esce, lodevolmente curato e introdotto da Alessandra Grandelis, con il titolo Se è questa la giovinezza vorrei che passasse presto (Bompiani). Fin dalle prime righe ci viene incontro uno strano ragazzo. È stato molto malato, zoppica, la tubercolosi ossea lo costringe a indossare un busto torturante. Il talento e la compagnia dei grandi romanzi soprattutto ottocenteschi, ecco la sorpresa, lo hanno però reso un vulcano in eruzione. Parla, straparla, mescolando affermazioni sorprendenti e affascinanti sciocchezze. Un gentiluomo piemontese, imbevuto di proustismo e più tardi collaboratore di «Solaria», Guglielmo Alberti di La Marmora, incontrandolo una sera a Cortona rimane sbalordito. Così lo racconta scrivendone il giorno dopo ad Alessandro Passerin d’Entrèves: è «un continuo discorrere di sé, uno squadernar giudizi su tutto e su tutti senza riguardi». Sempre Alberti, dopo aver ascoltato una lettura ad alta voce degli Indifferenti ancora in gestazione, ne fa una prima e lucida recensione a uso privato: «Quei cinque suoi ignobili personaggi, rappresentanti della moderna anzi contemporanea borghesia, non li dimentico: vivono».
Frattanto Moravia sta cercando un titolo da dare a pagine che sono la ragione della sua vita. Si arrovella, cambia idea, chiede epistolarmente consiglio agli amici. Che cosa ne pensano di Due giorni e cinque persone? Meglio, molto meglio lasciar cadere. L’alternativa, in omaggio ai Demoni dostoevskiani, è Gli ossessi o anche I dannati. Il vero titolo quasi un’illuminazione, cioè Gli indifferenti, salterà fuori solo più tardi.
Chi sono frattanto gli interlocutori di Moravia, i destinatari della sua fitta corrispondenza? Appartengono tutti o quasi a una cerchia composta di intellettuali ultra-raffinati dunque intolleranti dello sfacciato protagonismo mussoliniano, alcuni di loro provengono da un giro torinese di antifascisti d’estrazione gobettiana. Con loro anche un rappresentante di quella contestazione radicale, irriducibile, che sembra quasi prefigurare con decenni di anticipo gli hippie. I nomi? Il conte Umberto Morra di Lavriano, il conte Guglielmo Alberti di La Marmora, la contessa Margherita Papafava, il coraggioso ultra-socialista Andrea Caffi, la pittrice svizzera Lélo Fiaux, il blindatissimo e quasi irraggiungibile ai più Bernard Berenson, l’autorevolissimo critico Pietro Pancrazi con Carlo Levi, Nicola Chiaromonte, Curzio Malaparte, Giuseppe Prezzolini, Mario Pannunzio, Giorgio Vigolo... Il giovane Moravia uno snob? È lui stesso a dare questa spiegazione delle sue frequentazioni altolocate o sciccosamente ribelli. Scapigliate. «Avevo come ideale di vivere al modo dei personaggi di Dostoevskij, tra i quali ci sono molti emarginati ma anche molte duchesse e molti salotti».
Quali i temi toccati in queste lettere che portano i timbri postali di mezzo mondo, dal momento che Alberto sale e scende da treni, navi, aerei? Anzitutto i viaggi che lo portano nelle grandi capitali europee e non solo, i soggiorni in famose località climatiche italiane e non. In primo piano c’è sempre il lavoro letterario, i libri. Le pene d’amore danno occasione, esternandosi, a qualche eccesso narcisistico. Si fa posto, senza dargli troppa importanza, agli incontri con personaggi grandi e meno grandi della cultura di lingua francese e inglese. Non debbono poi venir trascurati certi sfoghi e capricci dello scrittore Moravia.
Un esempio? All’epoca Alberto lavorava a rendere accettabile, con continue correzioni e limature, il meno felice dei suoi romanzi, cioè Le ambizioni sbagliate. Un certo giorno dell’anno 1933 doveva essere particolarmente scontento dei risultati della sua fatica. Così eccolo schiumare. All’impassibile, aristocratico e magrissimo Morra di Lavriano, asserragliato nella sua avita dimora cortonese, scrive: «Ho il disgusto del mio lavoro – dopo questo mai più romanzi – ne ho un disgusto che rasenta l’insofferenza – e soprattutto ho il disgusto della verosimiglianza, del realismo, delle cose prese di peso dalla realtà quotidiana e spiattellate sulla carta – tutto questo mi sembra angusto e noioso poco interessante – e siccome indietro non si torna e neppure ci si può fermare farò qualcos’altro – ti ho detto che vorrei scrivere delle tragedie di soggetto classico...». Quello di volersi dedicare alla tragedia è il ritornello giovanile di A.M. nei momenti di scontentezza o di sfiducia in se stesso. Quindi, prima di concludere, non si fa mancare una vera e propria bestemmia, considerata la narrativa che andava praticando con successo: «E poi c’è la noia di inventare l’intreccio e di perdere in quel lavorio tutto il fiato che servirebbe dopo...». Proprio come un bambino che si accanisce nel rompere il suo giocattolo preferito!
Insomma. Moravia, stando a come si viene dipingendo in questo fin troppo sincero epistolario, è con più diritto d’ogni altro lo «scrittore novecento» quale poteva esprimere la cultura italiana del suo tempo. Ne è un prototipo, una insostituibile incarnazione. E ancora. Quale tipico «scrittore novecento», affermatosi nei difficili ma anche fervidi anni Trenta della nostra cultura, Moravia è malato di letterarietà mentre è alla ricerca esasperata dell’anti letterarietà. È uno scrittore di sensibilità, di radici, di educazione borghesi in coraggiosa fuga dalla borghesia, è un intellettuale perseguitato a causa delle sue tematiche dai pregiudizi d’una società ultra conformista e lui in risposta vive in modo persino dogmatico il suo radicale anticonformismo. È un conformista dell’anticonformismo. Moravia costituisce insomma l’icona indispensabile a illustrare quarant’anni del nostro Novecento letterario. Ecco quanto emerge da queste lettere che si aggiungono utilmente a un ampio, insostituibile materiale biografico e autobiografico, così come un prezioso documentario amatoriale può aggiungersi a una severa, insostituibile opera d’autore.