Corriere della Sera, 31 ottobre 2015
Opere d’arte, strumenti musicali e il "Manuale di Nonna Papera". Visita a casa di Gualtiero Marchesi
Sull’isola deserta non porterebbe un oggetto, ma un progetto. Quello per una collezione di gioielli gourmet. Cerca i disegni, non li trova. Poco importa, è tutto in testa. Come la spilla a chiave di violino con coda a forchetta, simbolo delle sue passioni: cucina e musica. Gualtiero Marchesi, 85 anni compiuti, non guarda al passato, «alla polverosa malinconia delle cose» ma al futuro, «alle potenzialità di un’idea». «Ho imparato prima a tuffarmi che a nuotare», dice. Il motto di un’intera esistenza. Lanciarsi. Osare.
Ecco il grande chef nel villino inizio Novecento dalla facciata pervinca, davanti al ristorante dove ottenne, primo in Italia, le fatidiche tre stelle Michelin. Era il 1985, a Milano. «Lasciavo i fornelli, attraversavo la strada e ritrovavo i miei libri, i miei dischi». Oggi come ieri, questa è più casa di un musicista che di un cuoco. Strumenti di ogni tipo affollano il soggiorno: un violino e un violoncello («dei miei nipoti»), due arpe («di mia figlia») una classica e l’altra birmana, il pianoforte Bechstein «galeotto dell’amore con mia moglie Antonietta, allora mia insegnante di musica». Lei, giovanetta, è raffigurata in un bronzo che guarda la grande cucina con veranda.
Una cucina all’antica, senza concessioni al design. Un vecchio camino, il tavolo centrale, le tazze sull’acquaio, bicchieri da osteria, una poltrona, libri di ricette in doppia fila. Grandi classici quali Artusi, Escoffier, Carême? Nuovi guru come Redzepi, Bottura, i Roca? Niente affatto. In bella vista, il Manuale di Nonna Papera: «A essere curiosi, qualche idea viene fuori anche da lì». In questa villetta a tre piani dalle atmosfere d’antan si contano più quadri che ricettari. Nell’ingresso lavori di Aldo Calvi. Sulla scala un mosaico di oli, disegni, schizzi: «ricordi di tanti amici artisti». C’è un ritratto a matita di Marta Marzotto firmato Renato Guttuso, «lo fece in un attimo, a casa sua». E c’è un taglio su carta di Lucio Fontana, «fatto al ristorante proprio per me».
In camera, vicino al letto, un diario nero con le cifre d’oro dove Marchesi, smemorato collezionista di aforismi, trascrive i più amati. Nel comodino un sacchetto di plastica con scatole di latta: le Merde d’artiste di Piero Manzoni, «l’amico più caro – ricorda —. Ci vedevamo ogni sera. Io amavo l’arte, lui la buona tavola. Dopo avere visto le sue Achrome, fondo grezzo e assenza di colore, le replicai a modo mio. Scelsi il salmone per le carni scabre dal rosa tenue».
L’universo Marchesi è affastellato di entusiasmi dal candore infantile. Specchio la scrivania dello studio, un allegro disordine di oggetti minuti: piccoli carillon con note di Wagner e Verdi presi a Francoforte («divertenti, vero? In Italia non si trovano»); la foto della prima auto, un’Appia blu («correvo come un matto, non c’era l’autovelox»); gli ex libris di Calvi con le muse dell’ospitalità e della musica.
Nel guardaroba, in esplosiva anarchia, duemila cravatte «prese nei musei con dettagli di Mondrian, Kandinskij, Pollock, che hanno spesso ispirato i miei piatti».