Sette, 30 ottobre 2015
È vero che la ricchezza delle famiglie italiane è tra le più elevate del mondo, ma è stata in parte accumulata a spese dello Stato
L’altro giorno sono entrato in uno sportello postale, e mi sono reso conto che la fila per spedire un pacco non era la più lunga. Era più nutrita la piccola folla di persone che aspettava il proprio turno allo sportello servizi finanziari, forse perché si stava celebrando in silenzio un rito a suo modo molto italiano. È in corso in queste settimane. Il ministero dell’Economia vende un pezzo del paesaggio delle città del Paese, le Poste con le loro 14 mila filiali. Centinaia di migliaia di famiglie, spesso le stesse che hanno depositato proprio alle Poste circa 250 miliardi di euro dei loro risparmi, si sono subito prenotate per un piccolo pezzo di quella azienda.
È una celebrazione laica che ritorna dopo le privatizzazioni (parziali) dell’Eni o dell’Enel, e si fonda su alcuni valori di fondo della società italiana: la capacità di generare reddito attraverso l’export, la parsimonia, l’accumulo e la trasmissione della ricchezza attraverso le generazioni. Ci siamo sempre ripetuti che l’Italia in ogni momento può cedere parte del proprio patrimonio pubblico senza per questo doverlo svendere, perché il patrimonio privato del Paese basta per comprare ciò che il governo mette sul mercato. Più che altrove, la ricchezza delle famiglie è un’assicurazione contro la povertà dello Stato. Dunque siamo (saremmo) una nazione solida.
Fin qui la storia che raccontiamo a noi stessi. E in effetti contiene porzioni di verità: nel 2013 il debito pubblico dell’Italia era di 2.100 miliardi ma la ricchezza degli italiani al netto dei loro debiti era 8.728 miliardi, oltre quattro volte di più. Nel mondo si tratta una realtà quasi unica. Il patrimonio delle famiglie del Paese è di circa otto volte il loro reddito disponibile di un anno, cioè delle entrate sulle quali esse possono contare per vivere. Ad eccezione della Francia, fra le prime dieci economie industrializzate che possa contare su una riserva così elevata di ricchezza finanziaria e immobiliare. In questo la vendita di parte delle Poste ai suoi stessi correntisti e a tanti altri italiani è davvero la celebrazione di un rito profondamente italiano.
C’è tuttavia una zona d’ombra, in questa narrazione rassicurante su noi stessi. Passa inosservato che la dinamica di questa accumulazione di ricchezza non combacia con la storia, per quanto reale, di una nazione emersa dalla povertà del dopoguerra con la forza del proprio lavoro. Curiosamente, gli anni della grande crescita del risparmio non corrispondono a quelli del boom economico o dell’affermazione della competitività italiana sui mercati globali. Le fasi in cui il risparmio esplode sono piuttosto quelli dell’evasione fiscale, delle bolle finanziarie su un debito pubblico in aumento e di disavanzi degli scambi con l’estero, dovuti a una perdita di competitività. In altri termini, sono gli anni immediatamente precedenti le due grandi crisi finanziarie: quella del 1992 e quella del 2011-2012. Secondo i dati dell’economista francese Thomas Piketty, il patrimonio netto degli italiani nel 1987 era al 280% del Pil – in linea con il resto d’Europa – ma esplode fino al 590% nel ’92; quindi un’altra accelerazione si registra negli anni duemila, fino a questa crisi. Per il resto del tempo l’andamento della ricchezza degli italiani risulta nella media degli altri Paesi.
Il miracolo. Si capisce così che qualcosa di anomalo è successo. In parte gli italiani hanno accumulato a spese dello Stato, ma poi non hanno perso (non troppo) quando sul debito pubblico è cresciuto fino al punto di rottura. Dopo il ’92 a stabilizzare il Paese arrivò la prospettiva dell’aggancio alla moneta unica. Nel 2012 fu l’intervento della Banca centrale europea. In questo momento di narcisistica celebrazione del risparmio nazionale, non è il caso di dimenticarsene.