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 2015  ottobre 30 Venerdì calendario

Viaggio a Dubai, dove il Guinness dei primati è la costituzione ufficiosa

L’incontro Dubai vs Natura è stato sospeso da tempo per ko tecnico. Non c’era storia. Prendete questo rifugio Sankt Moritz al fondo della pista da sci inventata dentro il Mail of the Emirates. All’interno ci sono quattro gradi, fuori trentadue e d’estate anche cinquanta. Oppure fate caso a quei tubi neri che, come vene idriche, irrorano la sabbia fino a convincerla a diventare una terra sufficientemente buona perché ci cresca l’erba. O all’isola artificiale a forma di palma dove vivono i vip più vip di tutti. La prima volta che ho visitato questo non-luogo globale, nel 2001, metà delle cose che oggi la rendono celebre non c’erano. Non il Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo, né il Dubai Mall, il centro commerciale più immenso.
Il Guinness dei primati è la costituzione ufficiosa della città. La moschea ospita il tappeto più vasto, pare che anche una duna sia la più alta (300 metri) e un bicchiere di whisky numerato il più caro (2.000 euro). I record entusiasmano i bambini, ma gli adulti che ci fanno? È la domanda che sono venuto a porre a una rappresentanza di italiani tra i 4-5.000 residenti negli Emirati Arabi Uniti. Perché, tra le tante cose straordinarie che qui abbonderebbero (riassumendo: opportunità, meritocrazia e sicurezza), mi sembra che ne manchino altrettante di ordinarie che nella Vecchia Europa costituiscono la categoria vaga ma essenziale di «qualità della vita».
Da Voglioviverecosì, un sito dedicato a quelli che lasciano l’Italia, mi consigliano di contattare Fabio Troglia, un trader che aveva già vissuto a Malta. Lo incontro nel lussuosissimo bar di The Address, un hotel della zona Marina. «Qui c’è il futuro» esordisce questo trentasettenne torinese con moglie fotografa e figlio piccolo. Spiega: «È un posto molto stabile con valori forti, tra cui la sicurezza. Pieno di opportunità per i giovani. Magari qui accanto a noi c’è un figlio di uno sceicco, per questo c’è sempre da andare a giro con i biglietti da visita». Lui gestisce patrimoni, i ricchi sono la sua materia prima. Mentre provo a obiettare che non si può fare una passeggiata per il caldo assassino, perché non esistono marciapiedi e la metro è più che altro uno shuttle da un mall all’altro, mi guarda come un miscredente: «Si può fare tutto. Il mare, il parasailing, le mostre. Quanto alla passeggiata, ce n’è una sul mare lunga sette chilometri a Jbr, centro della movida». Ci siamo detti tutto questo e il cameriere ancora non si vede, nonostante che l’abbia già sollecitato. Mi viene in mente L’uomo di Dubai (Codice), il bel romanzo di Joseph O’Neill su cui ho fatto i compiti a casa, quando dice che «il servizio è basato sull’adulazione e l’ossequiosità più che sull’efficienza». Il libro racconta le disavventure antropologiche di un americano che viene qui come tuttofare per una famiglia opulenta e descrive il posto come «un immenso e occulto ordigno, carico di insidie giudiziarie per gli stranieri». Puoi finire in galera per un bicchiere di vino, per aver pomiciato in pubblico o per un’infinità di altre cose, generalmente afferenti alla già citata qualità della vita. Troglia minimizza e mi dà appuntamento da Bice, uno dei più rinomati ristoranti italiani, dove ha convocato altri connazionali.
Sono sei uomini, alla faccia delle quote rosa. Tutti molto contenti di stare qui, con sfumature diverse. Li supplico di provare a contagiarmi. Apre il dibattito Piero Ricotti, vicepresidente della Camera di commercio che dopo vent’anni dice Sua Altezza quando si riferisce all’emiro Mohammad Maktoum: «Qui c’è la sicurezza e la visione che in Occidente si è persa». Vada per la visione, ma a Milano dove viveva non era il Bronx. Filippo De Rosa, broker per un’importante finanziaria britannica, esce finalmente dalla laconicità: «Qui non esistono tasse sul reddito, né sul capital gain: per il mio mestiere fa una grossa differenza. Ho anche aperto tre ristoranti e un’agenzia di viaggi». Interviene ad adiuvandum un brillante commercialista milanese che preferisce non figurare: «Beh, i camerieri qui costano un quarto che da noi, sui 300 euro. E niente contributi: quel che prendono loro è quello che costano a te».
Il welfare è non pervenuto, un’anticaglia di cui lo Stato-bambino fa volentieri a meno. Insomma, si possono fare dei gran soldi esentasse. Ma Matteo Bolognini, dentista trentenne, starebbe qui anche se da noi guadagnasse altrettanto: «Il potenziale di crescita è pazzesco. E punto ad allargarmi verso l’Asia». Lavora dodici ore al giorno, sei giorni su sette, con espatriati largamente coperti da assicurazioni («Tanti interventi estetici, sbiancamento e ricopertura. Qui vogliono un punto di bianco che da noi non esiste, l’Hollywood Smile»). Nico de Corato è un blogger che su Linkedin si definisce «visionario» e mi manderà in lettura un’intervista a Millionaire. Da noi stentava, qui ha aperto dieci blog di notizie locali in più lingue. Con Troglia è il più entusiasta: la loro tavolozza di aggettivi spazia da magnifico a fantastico. Invidio il loro sguardo positivo e suggerisco che si facciano pagare dalla Proloco (De Corato in effetti mi inviterà a una visita guidata con altri italiani). Dei sei maschi alfa seduti intorno al tavolo solo l’anonimo e De Rosa manifestano occasionale nostalgia per la madrepatria, altrimenti dipinta come un malato terminale dal cui capezzale è meglio stare alla larga.
Ad Al Fahidi, il quartiere antico (parliamo di fine ’700) con fortino e museo annesso, incontro Annamaria Bersani. Storica dell’arte di Finale Ligure, ha seguito il marito in Sudafrica per poi arrivare qui («Il governo voleva impiantare la cantieristica e lui era tra i più bravi sulle vernici. Ci hanno fatto un’offerta irrifiutabile»). Prima ha rimesso in sesto una galleria d’arte di una signora facoltosa e sprovveduta. Poi le hanno fatto dirigere l’Opera Gallery, una sontuosa galleria nel Financial District. Ora sta per inaugurare una galleria sua finanziata dagli Al Serkal, dei Pirelli locali. «Mi trovo benissimo. La sicurezza è assoluta. Così come la gentilezza di chi ti serve nei negozi. E le
 donne sono trattate in guanti bianchi». Mi tocca obiettare. Lo spettacolo di queste mogli intabarrate nell’abaya nera che lascia scoperto solo l’ovale è deprimente. Se ti beccano a letto col tuo uomo da non sposati sono guai seri. Recupera: «Parlavo principalmente delle straniere, le locali sono trattate come bambole, con infinita delicatezza. E comunque qui c’è una decenza che da noi si è persa». Le racconto dell’aggressività delle escort ucraine in ogni locale da stranieri che, quattordici anni fa, mi aveva stupito. Ammette che la prostituzione dilaga ancora. Il trucco, credo, è mantenere uno strabismo sistematico tra mondo dei ricchi e Unterwelt dei migranti. È un Paese che ha perso l’uso delle mani e l’ha delegato a nepalesi, filippini e pakistani che spazzano, guidano i taxi e si prendono cura dei bambini. Uno schiavismo soft che riguarda quasi il 90 per cento della popolazione.
L’unico del mondo di sopra che ogni tanto li interseca è Vincenzo Lavecchia. Trentenne barese da esportazione, è il pizzaiolo capo, meritatamente pluripremiato, di Eataly. Cinque anni fa, quando è arrivato, lavorava in cucina all’Atlantis, albergo extra-lusso sulla Palma e dormiva acquartierato con gli altri 1.500 dipendenti («Un dipendente per cliente. Tanti a 300 euro al mese»). Lui oggi ne fa dieci-dodici volte tanti, si è appena comprato una jeep per l’off road nel deserto e per il resto viaggia appena può. Però vive a Reemran, quartiere periferico dove 80 metri li affitti con 800 euro, un terzo di quanto vogliono nei compound della Marina. Il giorno prima alcuni manovali sono scesi in strada per protestare, ma i giornali non ne hanno dato notizia. Quando a marzo si assembrarono a centinaia intorno al Dubai Mail li dispersero silenziosamente in un’ora.
Mentre ceniamo, di fronte al maestoso e disneyano gioco di luci che ogni sera va in scena sullo sfondo del Burj Khalifa, gli arriva un messaggino dall’emiro: «Sei felice a Dubai?» è il testo del sondaggio che finirà con un’87 per cento di risposte positive. Non gli manca l’Italia, gli manca Bari Vecchia, per fare una passeggiata, fermarsi in un bar, fare due chiacchiere con gli amici. Mi sento meno incompreso e mi viene in mente una definizione micidiale di Walter Siti in Il canto del diavolo (Rizzoli), inarrivabile reportage sugli Emirati, quando parla di una finlandese rimasta anni in ospedale: «Forse è un Paese da apprezzare in coma». Il suo è un catalogo vertiginoso delle assurdità estreme che pure funzionano da magnete, compreso un locale con un espositore di vini dove i più pregiati stanno strategicamente in cima e chi li ordina ha il fringe benefit di vedere la commessa in minigonna inerpicarsi per prenderli.
Qui, in quarant’anni, sono passati dal Medioevo al postmoderno. E nell’accelerazione inevitabilmente si sono persi dei pezzi. Come questi azzimati rampolli in dishdasha immacolata che in una galleria d’arte non hanno occhi che per gli orologi extralarge dello sponsor invece che per i quadri. O come a quest’asta di Christie’s dove mogli annoiate di occidentali workaholic rilanciano sconsideratamente per vedere l’effetto che fa. Ciò che i turisti ammirano, scrive Siti, non sono i monumenti ma la fede nell’onnipotenza del denaro. Che ha strappato al deserto un esclusivo nuovo quartiere con una vegetazione quasi amazzonica. Pare che, a un certo punto, in città fossero all’opera un quarto delle gru del mondo. Per chi ha fatto il salto noi ci gingilleremmo al suono del grammofono. Se non vi disturba vivere in una serra hi-tech, qui c’è posto.