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 2015  ottobre 30 Venerdì calendario

Intervista a Saccomanni sui tassi sotto zero: «Non dovrebbero durare a lungo. L’incertezza deriva anche dalla Fed che non si decide a far pagare di più il denaro»

ROMA. «L’inedita situazione dei titoli a rendimento negativo, un “club” in cui adesso è entrata anche l’Italia, rispecchia un momento particolare a livello mondiale. Si è diffuso quello che tecnicamente si chiama “rischio di controparte”: pensiamo ai grandi investitori, ai fondi pensione, alle compagnie di assicurazione globali, anche alle banche. Bene: dove dovrebbero investire, con la Cina che rallenta, gli altri Brics che rappresentano un’incognita, una larga parte dei Paesi emergenti in difficoltà? Il rendimento è solo una parte della valutazione, c’è anche la sicurezza. E questa la garantisce un ristretto numero di Paesi, fra cui l’Italia». Fabrizio Saccomanni, ministro del Tesoro nel governo Letta fino al febbraio 2014 dopo una carriera in Bankitalia, dove è stato direttore generale dal 2006 al 2013, oggi insegna Economia alla Luiss. «Il prezzo di un titolo lo fa la domanda, magari di chi presuppone che con il capital gain, rivendendo il titolo al momento giusto sul mercato secondario, si rifarà dei mancati interessi, e così avviene anche per l’Italia».
Diciotto miliardi in tre anni per il bilancio pubblico, altro che spending review.
«Bisognerebbe che questa situazione durasse tre anni... La riduzione dei tassi realizzata finora ha comunque generato risparmi che consentiranno di accrescere la spesa o ridurre le tasse, sostenendo la ripresa».
Qualcosa di paradossale resta: come spiega ai suoi studenti perché bisogna investire in un titolo che anziché dare interessi, costa pure qualcosa?
«È chiaro che parliamo di una situazione che realisticamente non dovrebbe durare a lungo. C’è un eccesso di liquidità in tutto il mondo, e diciamo pure che ad esso contribuisce il quantitative easing, e c’è contemporaneamente un’avversione al rischio, nonché un’incertezza alla quale invece contribuisce il continuo rinvio dell’aumento dei tassi della Fed. Un aumento che avrà effetti pesanti per i Paesi emergenti indebitati in dollari. Nell’attesa di questa fase, c’è una sorta di stasi, di sospensione. E i soldi finiscono nei titoli degli Stati più sicuri».
Perchè non vengono investiti in attività produttive?
«Guardi che almeno per quanto riguarda l’Italia, com’è emerso nella recente Giornata del risparmio, c’è una lenta ma graduale ripresa degli investimenti e delle erogazioni bancarie, dai mutui casa fino ai finanziamenti industriali. Del resto se ormai è acclarato che si va verso l’1% di crescita, vuol dire che incontrovertibilmente la ripresa è avviata. La tendenza delle banche a fare prestiti col contagocce si è invertita. Certo, si potrebbe fare di più, combinando investimenti pubblici e privati».
Ma dov’è il “lower bound”, quand’è insomma che un tasso è troppo negativo?
«Difficile dirlo. Come dicevo però a questi livelli di tassi si potrebbe investire di più a livello europeo. Ma la Germania, il Paese guida che potrebbe permetterselo, è riluttante a investire in opere pubbliche perché dice che così lascia alle generazioni future un debito pesante. Solo che così lascia infrastrutture fatiscenti e investimenti mancati».
Sul quantitative easing, l’economista Munchau dice che l’unica a guadagnarci è l’Italia, aggiungendo bontà sua che comunque ne vale la pena. È riduttivo?
«Se l’euro è sceso e c’è più liquidità in giro, il beneficio è per tutti. È vero che l’Italia ha un debito alto, ma solo in termini proporzionali. La Germania ha lo stesso debito nostro, solo che essendo il Pil maggiore il rapporto è minore».