Corriere della Sera, 30 ottobre 2015
Cosa trovare alle Svalbard
Da qui, ogni luogo è lontano. La città più vicina è a un’ora e mezza di aereo. L’Italia è distante sei ore di volo. Per chi si sente solo, è più facile incontrare orsi polari che persone. Chi ama il verde, non avrà alberi sotto cui stendersi. Ma, capita a molti, la natura è così intensa da fare innamorare subito, non appena l’aereo inizia la sua discesa verso il piccolo aeroporto di Longyearbyen.
Benvenuti alle Svalbard, nel cuore dell’Artico, dove il sole non tramonta da aprile ad agosto, e l’inverno è il più lungo e scuro del mondo, 155 giorni di buio totale. Siamo nelle terre abitate più a Nord del pianeta, mucchietto d’isole a mille chilometri dal Polo che sui mappamondi spesso nemmeno si vede, al 78esimo parallelo, dove l’amministrazione è della Norvegia, ma grazie a un trattato del 1920 tutti i Paesi firmatari possono sfruttare le risorse presenti.
Un tempo qui erano tutti minatori. Oggi l’economia è fatta soprattutto di turismo e ricerca e la popolazione è composta da 2 mila persone, di oltre 40 nazionalità diverse. «Tutti avventurieri o persone con problemi, o magari tra noi c’è qualche serial killer in fuga», scherza Jim Johansen, 38 anni, manager turistico. Capelli lunghi, camicia a scacchi bianca e rossa, è seduto sulla soglia del suo cottage ai confini del paese: in mano una sigaretta, nell’altra una bottiglia di vodka russa. Sono le ventidue e il sole è alto sull’orizzonte. Sulla spiaggia ci sono decine di sterne, uccellini artici.
Nella sua prima vita faceva il manager musicale. «Vivevo sui treni e sugli aerei», racconta mentre poco lontano, dall’altra parte della baia, arriva il rumore del calving, pezzi di ghiacciaio che improvvisamente si staccano e finiscono in mare. «Un giorno sono venuto qui con una band per un concerto. In hotel ho aperto le finestre e guardato fuori. E ho deciso di rimanere».
Capita a molti, dicono in paese. Polar fever, la chiama qualcuno. Conquistati dal paesaggio. Come Sara: belga, 30 anni, lavora all’ufficio turistico e vive nel campeggio di fronte all’aeroporto. E ogni sera d’estate sposta la sua vecchia Volvo in riva al mare e dorme in auto, solo per sentire il rumore delle balene.
Lo spettacolo inizia in aereo. Quando a un certo punto, sotto l’ala di uno dei Boeing che arrivano su queste isole, compare un’infinita distesa di ghiacciai. «Il segreto è sedersi in una fila di destra», spiega, accarezzandosi la barba. «È così che si godono i panorami migliori».
Sono alcuni dei consigli che ogni giorno ripete ai turisti che accompagna in giro per baie e fiordi, a bordo dei pescherecci della Spitzbergen Travel. «La gente arriva per vedere balenottere, trichechi e volpi artiche. Ma alla fine capisce che bastano questi tramonti per ripagarti il prezzo del viaggio», dice, indicando il mare. «Anche se il mio periodo preferito è l’inverno. Visto che questo è uno dei pochi posti al mondo dove potere fare lunghe gite in motoslitta».
I percorsi per il trekking non si contano. «L’importante è essere ben equipaggiati. E armati», spiega Erlend Marø, 23 anni, guida artica. Capelli biondi, giaccone verde, guarda l’orizzonte con un binocolo, mentre scorta alcuni viaggiatori su per i sentieri intorno a Longyearbyen.
Precauzioni necessarie in un Paese in cui gli orsi polari sono superprotetti, ma incontrarne uno può essere fatale. «Anche se qui non siamo certo a Fortitude (la serie tv a tinte horror di Sky ispirata alla vita sulle Svalbard)», sorride Erlend. «Non facciamo la spesa con il colpo in canna e nessuno ha mai trovato un mammut sepolto in giardino. Ma sappiamo che la natura può fare molto male».
Lo sanno bene gli abitanti di Longyearbyen, dove le case sono sempre aperte, giorno e notte, per offrire un rifugio ai passanti. E anche le insegnanti del micro-asilo, durante le uscite all’aperto, sorvegliano i bimbi – 17 in tutto – con il fucile a tracolla.
Se ci si vuole spingere un po’ più in là, c’è Pyramiden. Un ex insediamento minerario sovietico, oggi abbandonato. Per arrivarci ci vogliono quattro ore e mezza di battello da Longyearbyen o 7 giorni di cammino attraverso i ghiacciai. «Un tempo qui vivevano oltre mille persone», spiega Sasha Romanovskiy, 33 anni, russo, il guardiano del posto. I capelli lunghi, il volto affilato, il colbacco in testa e l’uniforme nera, vive qui da tre anni.
«Gli operai raggiungevano i tunnel con quella specie di funivia – spiega, indicando la montagna nera di carbone che sovrasta l’insediamento – solo i migliori ottenevano un posto». Per loro l’Urss volle fare le cose in grande. Costruì una scuola, un ospedale e un cinema da 300 posti. Mucchi di terra fertile furono fatti arrivare dall’Ucraina, per permettere agli abitanti di coltivare. Tutto restò in funzione fino al 1991. Poi, nel 1998, la città fu chiusa per sempre.
Oggi uno dei palazzoni dormitorio è stato riconvertito in hotel e la società mineraria russa Artikugol, che amministra il centro dagli anni Trenta, punta tutto sul turismo.
Quando Pyramiden era ancora in vita, la gente di Longyearbyern veniva qui a fare il bagno nell’enorme piscina riscaldata. «La Guerra fredda in questo posto non esisteva», racconta Roar Christiansen, norvegese, seduto a un tavolino del bar. Visse a Longyearbyen dal 1959 al 1969. «Venivo con i miei compagni per fare dei concerti insieme ai ragazzi russi. Quello che avveniva sul continente non ci riguardava. Le Svalbard, allora come oggi, non sono mai state un posto come tutti gli altri».