la Repubblica, 30 ottobre 2015
Una ragazza chiusa, svogliata, che va male a scuola. La madre le proibisce pc e cellulare, e lei di notte le spara alla tempia
MELITO PORTO SALVO. Un colpo solo alla tempia a trenta centimetri di distanza, mentre dormiva. Così Sara avrebbe ucciso sua madre. Con «lucida freddezza e premeditazione», dice il gip del tribunale di Reggio Calabria che ieri, a cinque mesi dalla misteriosa morte di Patrizia Crivellaro, infermiera 43enne uccisa nel suo letto la notte del 25 maggio scorso, ha firmato l’ordine di custodia cautelare per la figlia 17enne. Una ragazza introversa, chiusa e problematica, che viveva una vita virtuale passando sui social network tutta la giornata, così la descrivono gli inquirenti. E sarebbe stata proprio la decisione della madre di proibirle l’accesso al computer cambiandole le password e sequestrandole il cellulare a scatenare la folle reazione di Sara, che avrebbe usato un’arma del padre, poliziotto della Polfer di Reggio Calabria, quella notte fuori casa per servizio.
Ad inchiodare la ragazza, da ieri mattina rinchiusa in un istituto di rieducazione per minori del centro Italia, due prove che i carabinieri della compagnia di Melito Porto Salvo ritengono incontrovertibili: l’esito del guanto di paraffina e un’impronta digitale. Lo “stub” avrebbe infatti rilevato tracce di polvere da sparo sulle mani della ragazza e nei mesi successivi gli esami sulla pistola avrebbero portato alla luce un’impronta di un dito indice che ha 17 punti di contatto con quello di Anna. Che, in tutti questi mesi, ha continuato a dire di non avere mai toccato quella pistola.
Non è mai crollata Anna in questi cinque mesi, neanche ieri quando i carabinieri l’hanno portata via. Eppure sin dai primi momenti la sua versione dei fatti non ha convinto nessuno. C’era solo lei, figlia unica, quella sera in casa con la madre. I rapporti tra le due erano tesi da una decina di giorni, da quando alla ragazza era stato inibito l’accesso ad Internet dopo che da scuola, l’istituto tecnico economico, avevano avvertito i genitori che Anna avrebbe probabilmente perso l’anno viste le troppe insufficienze accumulate. Liti, discussioni, musi lunghi ma niente che lasciasse presagire le intenzioni della ragazza.
Sono le 4.30 del mattino del 25 maggio quando Sara chiama uno zio materno che abita poco distante e gli dice di venire subito a casa perché la mamma «non risponde». Patrizia Crivellaro è ancora viva, rantola, la testa in un lago di sangue quando i medici del 118 avvertiti dai parenti arrivano a casa. Troppo tardi. In ospedale arriva già morta. Sara non sa dire cosa sia successo.
Racconta di essere stata svegliata da un tonfo, di essersi alzata e di aver visto fuggire un uomo altissimo (più di due metri, visto che come punto di riferimento indica una mensola del corridoio a quell’altezza). Dice di essere entrata nella stanza da letto della madre, di essersi allarmata perché non le rispondeva, di non aver visto il sangue né la pistola che era sul letto. Una versione che fa acqua da tutte le parti. Si ipotizza il suicidio, ma quando l’autopsia lo esclude a Melito parte la caccia al killer. Che non è il misterioso uomo nero.
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È stata lei, alle sette di mattina, ad aprire la porta di casa dei nonni, dove si era trasferita insieme al padre ormai da cinque mesi. Era già vestita, quasi che li aspettasse quei carabinieri guidati dal capitano Gianluca Piccione che, con il cuore piccolo così, erano lì per arrestarla. «Vado a chiamare papà», sono state le uniche parole pronunciate in tutta la mattina da questa ragazza diciassettenne che, per gli inquirenti di Reggio Calabria, avrebbe partorito con agghiacciante lucidità il piano per uccidere la madre che l’aveva tagliata fuori dal suo mondo, il mondo virtuale dei social network, l’unico in cui Sara si era fatta degli amici e persino un fidanzato che non aveva mai incontrato. A piangere a dirotto in caserma, disperato e incredulo, un padre che più di una volta, da quel tragico 25 maggio, è stato tormentato dal devastante tarlo del dubbio. «Sara, dimmelo. Sei stata tu? Sei sicura che non usciranno sorprese dal guanto di paraffina? Sei sicura che sulla mia pistola non troveranno le tue impronte?». «Papà, ma che dici? Non sono stata io, devi stare tranquillo. E che motivo avevo?». Di colloqui così le microspie piazzate in casa dai carabinieri ne hanno registrati diversi i primi giorni dopo la tragedia, con il papà ad incalzarla e Sara, gelida e sicura come sempre, a negare con decisione. Fino a quando i sospetti piano piano si sono allentati e padre e figlia hanno ripreso la loro vita “normale” a casa dei nonni paterni nel centro di Melito Porto Salvo perché la casa dell’orrore, la villetta bianca dalla quale la ragazza aveva detto di aver visto fuggire il misterioso “uomo nero” alto due metri, cinque mesi dopo è ancora sotto sequestro. Da quest’estate Sara era seguita da una psicologa che la aiutasse a superare la perdita della madre. Da settembre era tornata a scuola.
Certo, anche Luigi, il papà, tante volte ha pensato che solo Sara sapeva dove teneva nascosta la pistola, che in casa non era stato trovato alcun segno di effrazione né mancava niente, che nulla era venuto fuori scavando nella vita della moglie, capoinfermiera della clinica Villa Anya, che in famiglia nessuno aveva nemici, che la pista della rapina non aveva fondamento e che il suicidio era stato scartato dall’autopsia. Insomma, anche lui tante volte in questi cinque mesi ha pensato che l’unica vera sospettata poteva essere sua figlia. Ma adesso che Sara è stata portata via con la terribile accusa di omicidio premeditato aggravato da futili e abietti motivi, solo e barricato in casa, l’unica cosa che vuole dire è che «tutta la famiglia è accanto a Sara. Noi siamo con lei e la difenderemo». L’avvocato Domenica Tripodi, che lo ha accompagnato alla caserma dei carabinieri a portare due borse per la ragazza, invita alla prudenza. «È un’adolescente di 17 anni e innanzitutto va tutelata. Dobbiamo ancora capire quali siano le prove a suo carico. Di ragazze così, che passano ore al computer, è pieno il mondo, così come di genitori che, davanti ad un andamento scolastico poco soddisfacente, vietano l’utilizzo di telefonini e computer. E per quello che ne so i conflitti della ragazza con i genitori erano fisiologici».
Anche se ora, nel corso di questo paesone di 12.000 abitanti, tutti parlano di questa storia, nessuno sembra conoscere Sara. Impossibile trovare un’amica, un amico, neanche tra i compagni di scuola. Non aveva una vita sociale questa diciassettenne chiusa ed introversa che sembrava arrabbiata con il mondo e aveva poca voglia di studiare. Da scuola tornava a casa, pranzava, si chiudeva in camera sua e si metteva al pc.
E restava lì fino a sera, trascurando lo studio tanto che, alla fine dell’anno, i professori, vista anche la sua assoluta mancanza di impegno, avevano deciso di bocciarla. Niente comitiva, niente pizza del sabato sera, niente discoteca. E niente fidanzato. Anzi, per la verità, un ragazzo Sara diceva di averlo. L’aveva conosciuto su facebook naturalmente, amico di amici, un ragazzo del nord che sperava di incontrare d’estate se, come erano soliti fare, fosse partita per qualche giorno di vacanza con i genitori. «Se ti bocciano, ovviamente, niente vacanze», le avrebbe detto la madre che già le aveva cambiato la password del pc e sequestrato il cellulare. Chissà, forse anche il timore di non potere incontrare quel ragazzo di cui si era invaghita potrebbe aver fatto scattare la molla omicida. E chissà se, per architettare il suo piano, Sara si è rifatta a quel videogioco di cui era appassionata che aveva per protagonista una donna dalla pistola facile. Lei, dicono gli inquirenti, il suo primo colpo lo avrebbe sparato con la freddezza di un killer.