Corriere della Sera, 30 ottobre 2015
Cantone minaccia di uscire dall’Associazione Nazionale Magistrati (il sindacato dei giudici)
«Volevo fare un gesto eclatante, uscire dall’Associazione nazionale magistrati; ci sto riflettendo, perché l’Anm è casa mia», annuncia di prima mattina Raffele Cantone, a commento delle critiche giunte dall’ultimo congresso del sindacato dei giudici. «Decida liberamente, ma spero rifletta anche sul valore dell’Anm e sull’azione che da sempre porta avanti in difesa dell’autonomia dell’indipendenza della magistratura», ribatte a stretto giro Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione. Un botta e risposta che esplicita una volta di più il contrasto tra l’ex pm eretto a simbolo dell’anticorruzione dal governo Renzi e l’organismo di cui lui stesso è stato esponente di rilievo, quando presiedeva la sezione di Napoli, una decina d’anni fa.
Ufficialmente «il caso» nasce dalle dichiarazioni di fine estate in cui Cantone disse che non si sentiva rappresentato «da chi si batte per mantenere 45 giorni di ferie all’anno», che le correnti stanno diventando «un cancro» e che il Consiglio superiore della magistratura è ridotto a «centro di potere di cui si fa fatica ad accettare il ruolo». Sabelli gli rispose subito, tacciandolo di essere «offensivo e ingiusto», e lo scorso fine settimana il segretario dell’Anm Maurizio Carbone ha definito pericolose per l’autonomia e l’indipendenza dei giudici certe prese di posizione di chi «ha intrapreso altri percorsi professionali». Come il presidente dell’Anticorruzione.
Tuttavia la contesa non è solo sui giudizi antitetici rispetto al ruolo dell’autogoverno e del sindacato dei giudici. E non riguarda solo Cantone e i vertici dell’Anm. Nel congresso si respirava un’insofferenza diffusa verso chi ha acquisito grande visibilità grazie ad alcuni processi quando faceva l’inquirente (in particolare quelli al clan dei Casalesi, raccontati in più libri di successo) e poi l’ha sfruttata – questa è l’accusa – per ottenere un incarico che ne ha moltiplicato popolarità e occasioni per interventi pubblici. Spesso a sostegno dell’esecutivo e del presidente del Consiglio, che l’ha elevato a spot permanente della sua azione contro la criminalità.
Finché le esternazioni erano confinate alla lotta al malaffare, anche in senso lato ed estendendo molto quel concetto, c’era chi storceva il naso ma senza criticare pubblicamente. Mugugni sommersi. Quando invece il ragionamento ha preso di mira il «sindacato di categoria» e l’organo di autogoverno, la contrapposizione è diventata esplicita e alla luce del sole; come se Cantone non fosse considerato solo la foglia di fico di un potere politico che ancora una volta è ricorso al potere giudiziario per cercare una garanzia di legalità e pulizia, bensì un cuneo per mettere in discussione l’autonomia e l’indipendenza delle toghe, attraverso una delegittimazione dall’interno della categoria.
Naturalmente Cantone non la pensa così. «Io non ho mai fatto politica, e sono sempre stato indipendente, prima e adesso», ha ribadito ieri per rintuzzare ogni sospetto di essersi messo al servizio del potere esecutivo. Considera l’incarico affidatogli dal Parlamento all’unanimità un servizio alle istituzioni, prosecuzione dello stesso impegno svolto con la toga sulle spalle, con altri mezzi e altri compiti (anche al Massimario della Cassazione, ultimo ufficio occupato, non si sentiva molto utile). E sostiene che certi giudizi sulla degenerazione delle correnti, nonché sul ruolo di Anm e Csm, dovrebbero essere letti come un sostegno per quegli organismi; un aiuto a «guarire», non a distruggere. Ma per adesso l’interpretazione è stata diversa.