Il Messaggero, 29 ottobre 2015
Le vittorie, il doping, l’India, la malattia, il ritiro: intervista a Ivan Basso, l’ex ciclista appena diventato coordinatore tecnico della Tinkoff (la squadra di Sagan e Contador)
Ivan Basso vincitore di due Giri d’Italia ha dato l’addio alle gare ma il ciclismo non è un capitolo chiuso perché andrà a ricoprire il ruolo di coordinatore tecnico nella sua squadra, la Tinkoff, dove corre il campione del mondo Peter Sagan e lo spagnolo Contador.
Ivan, qualche giorno fa lei ha detto: scendo dalla bicicletta ma non lascio il ciclismo che è la mia vita. Cosa farà ora?
«Avrò un ruolo di regia nella mia squadra la Tinkoff, sarò il coordinatore tecnico».
Ci spieghi un po’ più nel dettaglio quale sarà il suo ruolo.
«Ho corso in bici per 32 anni e la mia esperienza si tramuterà in aiuto per tecnici e corridori perché io sarò il loro anello di congiunzione. In una squadra ci sono gli atleti che corrono ma dietro c’è tutto uno staff senza il quale un team non esisterebbe e io sarò in ammiraglia per seguire i ragazzi. Questo è un ruolo fondamentale e ringrazio Oleg Tinkoff per questa opportunità perché per me è un nuovo inizio di carriera nel ciclismo».
Cosa le rimane al termine della carriera?
«L’affetto della gente: quello non può togliertelo nessuno e vale più di ogni vittoria. Il calore del pubblico lo sento ancora ed è il dono più prezioso».
Che consiglio darebbe a un giovane che vuole correre in bici?
«Non è facile dirlo, non basta dire corri in bici perché è bello o fantastico. Mi piacerebbe poter far entrare tutta la positività di questo sport dal cuore come si fa quando guardi una corsa».
Parliamo dei nostri, di Aru e di Nibali. Cosa pensa di loro?
«Sono due grandi campioni che non possono essere paragonati perché sono molto diversi tra loro. Sono come due squadre di calcio: c’è chi tifa per il Milan e chi per l’Inter. Aru e Nibali sono gli ambasciatori del ciclismo italiano».
Ma il nostro ciclismo non è solo Aru e Nibali, vero?
«Assolutamente no. Mi viene subito in mente il nostro bravissimo Elia Viviani, poi Trentin, Oss e Malori, ma anche gli under 23 come Consonni, Moscon e Martinelli che a mio avviso sono già dei predestinati e saranno i nostri portabandiera a dimostrazione che il movimento ciclistico italiano è sano, con una Federazione che lavora bene».
Oggi si continua ad accostare il ciclismo al doping. Cosa pensa di questo?
«Accostare in ciclismo al doping è sbagliato. È uno sport sano, che lotta da anni per combattere questo problema. Poi non è vero che si corre più di prima; al contrario oggi ci sono più squadre con molti più corridori che possono quindi dividersi la stagione. Certo, i problemi ci sono stati e anche gravi, ma bisogna riconoscere la capacità di aver lavorato per riportare la credibilità».
Ivan, lei è stato coinvolto in un caso di doping. Qual è la sua verità?
«Stiamo parlando di tanti anni fa. Posso dire che è stata una parte buia della mia carriera ma ho avuto la capacità di ripartire. Indubbiamente è una macchia indelebile ma credo che sia importante vedere un atleta nella sua totalità e penso di essermi riscattato».
La sua esperienza con i bambini dell’India nel 2008 quando ha regalato delle biciclette è stato un modo per ripartire?
«L’esperienza dell’India ha fatto parte di quel biennio buio dove ho iniziato un percorso di crescita per ricominciare. È stata un’esperienza forte. Ho aperto gli occhi in un mondo che non conoscevo. Sono entrato in scuole e orfanotrofi e ho visto cose terribili che lasciano il segno. La cosa più bella che ho fatto per quei bimbi e che ancora faccio è di aiutarli nello studio perché attraverso la cultura potranno cambiare vita».
Quest’estate ha vissuto un momento drammatico: la scoperta del tumore a luglio durante il Tour de France. Come ha reagito?
«Ho reagito bene perché sono stato fortunato. I medici mi hanno subito tranquillizzato dicendomi che era una forma molto circoscritta, operabile e guaribile. Quindi alla notizia brutta c’è stato un susseguirsi di belle notizie. Per questo mi ritengo una persona fortunata e nel mio ruolo trovo che non sia importante raccontare la propria esperienza con un tumore ma sia determinante spiegare l’importanza della prevenzione e aiutare chi si occupa della ricerca».