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 2015  ottobre 29 Giovedì calendario

Come spiegò Cavour, l’unica capitale d’Italia non può che essere Roma - e in quanto a morale Milano farebbe meglio a tacere. Le parole di Cantone però contengono una mezza verità: Roma ha una zavorra di «poteri marci»

Paragonando Roma a Milano, e ad altri centri minori, Camillo Benso di Cavour era convinto che «Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali». E insisteva nei suoi discorsi parlamentari della primavera del 1861: «In Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali che devono farne la naturale capitale di un grande Stato».
Mettere in dubbio una realtà come questa, espressa oltretutto da una delle menti più raffinate e lungimiranti che l’Italia abbia avuto, è storicamente complicato. E sembra anche poco opportuno riproporre il tema tradizionalissimo del dualismo tra Roma e Milano, in una fase così delicata per entrambe. Nessuno può meritarsi la patente di «capitale morale», che ora Raffaele Cantone attribuisce a Milano mentre Roma «sta dimostrando di non avere gli anticorpi di cui ha bisogno». E sicuramente questo attestato di superiorità etica non lo si può attribuire alla metropoli lombarda, anche se proviene da un personaggio autorevole come il presidente dell’Autorità anti-corruzione. Perché dai tempi della «Milano degli scandali» e di Tangentopoli, fino alla recente inchiesta con tanto di arresti sulle tangenti e le raccomandazioni nella sanità, passando dalle vicende di Formigoni, dalle infiltrazioni della ’ndrangheta padrona, dalle storie del San Raffaele e dalle mazzette delle Ferrovie Nord e da tante altre smentite plateali della virtuosità della politica meneghina, questa città ha mostrato un «lato oscuro». Quel «lato oscuro» che a un milanese doc come Carlo Emilio Gadda faceva preferire Roma. Vale dunque la pena stabilire primazie? Milano, che stava facendo fallire l’Expo sotto i colpi del malaffare e di un giro di corruzione tra i più ingenti degli ultimi decenni, ha avuto bisogno di Roma e del commissariamento da parte del governo centrale per salvare quella grande occasione. Roma ha messo i soldi, la faccia e i controlli per l’Expo e in questa vicenda ha riconosciuto Milano come espressione dell’Italia intera. Cosa che molto raramente è accaduta da parte di Milano verso Roma, tradizionalmente considerata – con occhi lombardi e lumbard – «ladrona», «parassitaria», «arretrata», «inefficiente». La forzatura che Cantone adesso fa con le sue parole è accompagnata comunque da una mezza verità. Cioè che Roma non ha mostrato di avere gli anticorpi («che tutti auspichiamo» e «le mie parole non sono critiche ma di pungolo») necessari alla risalita. E questo perché ha una zavorra chiamata “poteri marci”. Ossia un sistema di politica malata che, a dispetto dei romani e sulla loro pelle, ha infettato questa Capitale, nella sua amministrazione e nel rapporto corrotto tra politica e burocrazia, riducendola nella condizione in cui si trova. Il cui riassunto drammatico sarà il processo su Mafia Capitale che il 5 novembre avrà inizio davanti agli occhi del mondo.
I “poteri marci”, che hanno stremato Roma privandola delle energie di riscossa, sono rappresentati nella maniera più umiliante e micidiale da una larga fetta del Pd romano – il partito degli Orfini, dei Marroni, dei Proietti – che ha riprodotto se stesso in una catena di divisioni, faide, guerre, affari, zone grigie, scambi occulti e interessi personali, di gruppo e di clan. Non è un caso che Renzi abbia detto che il Pd romano è perfino peggiore di quello calabrese. Che un democratico doc, Fabrizio Barca, ne abbia parlato come di un «partito cattivo, pericoloso, clientelare». E che a suo tempo la ministra Marianna Madia si sia spinta a definirlo, con buona preveggenza, una sorta di «associazione a delinquere». Poteri marci sono dunque – al di là delle responsabilità giudiziarie degli Ozzimo o dei Coratti che verranno chiarite nel processo – quelle reti politico-amministrative che hanno fatto della cosa pubblica il proprio habitat abusivo. E nove mesi di commissariamento del Pd romano sono naufragati tra circoli chiusi, calo delle tessere e partito spappolato e una presunta rigenerazione sbandierata dal commissario Orfini ma impalpabile agli occhi di tutti. Lo sfascio di Roma, su cui da fuori si infierisce e che ha nei cittadini romani le vittime incolpevoli, è figlio di un’operazione politica sbagliata – la scelta di candidare sindaco Marino come foglia di fico sul sistema corrotto – e appunto di un Pd inquinato e inquinante. Che in un gioco di complicità ha reso marcio l’intero sistema. Marino adesso ha potuto continuare il suo gioco delle dimissioni-non dimissioni, perché la sua forza è l’impotenza e la lacerazione interna di un partito diventato in buona parte impresentabile, anche a se stesso, e che ha agito con certi esponenti da cinghia di trasmissione tra clientele e apparato del Campidoglio.
Il marciume ha bruciato gli anticorpi. Ma individuare precisamente la patologia, invece di fare classifiche di merito e di demerito tra città diverse, è la premessa per la rinascita di Roma che non riguarda solo Roma.