Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 2015
Le banche utilizzano una tecnologia inadeguata alla finanza di oggi. O cambiano o saranno scalzate da operatori più moderni e attrezzati, esattamente com’è accaduto alle compagnie di bandiera con quelle low-cost oppure ai taxisti con Uber
Se un colosso come Deutsche Bank ammette che i suoi numerosi problemi sono dovuti anche ad una tecnologia che il nuovo capo definisce un «disastro totale», non è solo un ennesimo colpo al mito tedesco, ma anche un segnale importante per la strategia futura delle banche e in particolare di quelle con ambizioni globali.
I sintomi preoccupanti sono molteplici e non riguardano solo Deutsche: le banche di oggi non sembrano più in grado di sfruttare il potenziale della tecnologia non si dice per essere efficienti in termini di costi, ma anche per ridurre al minimo il rischio operativo. Che si tratti dei 6 miliardi di euro pagati per sbaglio dalla stessa Deutsche ad un hedge fund, dei comportamenti fraudolenti che sono costati all’industria mondiale sanzioni per 300 miliardi di euro, oppure dell’ingorgo nei pagamenti da parte di Royal Bank of Scotland (fra l’altro recentemente sanzionata proprio per le carenze del suo sistema informatico), tutto sembra indicare che la tecnologia delle banche è inadeguata alla realtà della finanza di oggi. E la solita scusa del trader infedele o dell’impiegato tonto ormai fa acqua da tutte le parti. Altro che mele marce: qui il problema è l’intero cestino.
Non è un caso che i problemi più gravi riguardino banche che fino alla crisi erano dominate da sfrenate ambizioni di crescita, magari sotto l’amorevole sollecitazione dei rispettivi governi ossessionati dal desiderio di coltivare campioni nazionali. Deutsche e Royal Bank of Scotland sotto questo punto di vista sono casi da manuale: la crescita, per linee interne o per acquisizioni successive, ha prodotto una stratificazione di sistemi operativi molto costosi, ma incapaci di comunicare fra loro in modo adeguato e inefficaci in termini di controlli interni.
Nello stesso tempo, anche banche di dimensioni meno colossali e più ancorate al modello di business tradizionale rivelano alla prova dei fatti pesanti inefficienze. Anche qui vi sono importanti denunce: pochi giorni fa, l’autorità antitrust britannica ha gettato un grido di allarme sul mercato dei prestiti alle piccole e medie imprese, documentando i costi eccessivi che possono essere scaricati sui clienti grazie all’insufficiente concorrenza. Così come si sprecano le prove fornite dell’eccesso di costi che l’industria del risparmio gestito riesce a scaricare sugli utenti finali.
Il problema è che non tutti sono consapevoli della necessità di un ripensamento profondo delle strategie. Non si spiegano altrimenti le invocazioni recenti a favore della necessità di creare “campioni europei” per fronteggiare la concorrenza delle grandi banche di investimento americane; non si spiega altrimenti il favore con cui si guarda ad una possibile nuova ondata di fusioni bancarie in Europa, nonostante che la crisi abbia determinato un ulteriore aumento del grado di concentrazione in tutti i mercati e nonostante che l’Europa abbia già un sistema bancario troppo grande rispetto all’economia reale (lo dice un rapporto dell’European Systemic Risk Board) e che tutta la crescita degli ultimi decenni sia imputabile alle prime venti banche. Proporre ulteriori fasi di espansione in queste situazioni è degno del generale guerrafondaio del Dottor Stranamore.
Le banche italiane sono meno afflitte di altre da questo problema di gigantismo, ma dovranno anche esse ridurre drasticamente i costi operativi perché il loro margine di interesse (una componente fondamentale di redditività) è penalizzato più di quanto accada in altri paesi dallo scenario di bassi tassi che caratterizzerà il futuro a medio termine. E solo investimenti in tecnologia massicci, accompagnati da un ripensamento profondo delle modalità di erogazione del servizio potranno consentire di arrivare a profitti netti compatibili con una remunerazione congrua del capitale.
La globalizzazione ha cambiato radicalmente i mercati e il modo di fare impresa e oggi premia chi è in grado di muoversi sulla frontiera dell’innovazione e della tecnologia. In campo finanziario, si tratta di operatori per ora marginali ma che dimostrano di essere in grado di offrire servizi efficienti e a basso costo alternativi a quelli bancari sia nel campo dei prestiti (come i credit funds, il crowdfunding e le loro infinite varianti) sia in quello dei pagamenti, fino a ieri riserva di caccia incontrastata delle banche. Insomma è tutt’altro che infondato il rischio che la minaccia concorrenziale venga dall’esterno, esattamente come è accaduto alle compagnie di bandiera con quelle low-cost oppure ai taxisti con Uber.
Se vale il principio di Hercule Poirot che tre indizi fanno una prova, molte banche potrebbero non essere in grado di rispondere in modo adeguato e anzi troverebbero nella tecnologia un fattore di debolezza, impegnate come sono a risolvere i problemi ereditati dal passato o a reinventare modelli di business adeguati agli scenari del dopo-crisi.
Occorrono quindi cambiamenti radicali, non aggiustamenti al margine per assicurare alle banche (e ai loro azionisti) un futuro a medio termine stabile e nello stesso tempo per garantire ai clienti servizi efficienti e al giusto prezzo o, se si preferisce, per sfruttare appieno – anche per gli utenti finali – il grande potenziale della tecnologia di oggi. E forse non è casuale che tutti gli episodi ricordati si siano succeduti nel breve spazio dei giorni che hanno preceduto la celebrazione ieri della giornata mondiale del risparmio.