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 2015  ottobre 28 Mercoledì calendario

Come vivono le famiglie degli scomparsi

Un telefono che non risponde, la porta di casa che resta chiusa, una macchina abbandonata o una giacca sul ciglio della strada. Spesso si annuncia così la sparizione di una persona cara, un evento apparentemente inspiegabile che ci sembra confinato nelle pagine di cronaca o in trasmissioni come Chi l’ha visto, ma che è più frequente di quanto si pensi.
«Le persone che scompaiono temporaneamente in Italia sono molte: ogni anno una trentina di loro non sono ritrovate. E parliamo solo di quelli la cui assenza è stata denunciata», osserva l’avvocato Antonio La Scala, presidente dell’associazione Penelope, fondata nel 2002 su iniziativa di Gildo Claps, fratello di Elisa, scomparsa nel 1993, e il cui corpo fu ritrovato solo nel 2010.
Molte persone scomparse ricompaiono dopo qualche giorno, o danno notizie di sé; in altri casi l’attesa termina dopo anni con il ritrovamento di un corpo. Spesso però la scomparsa resta avvolta in un mistero, generando una sorta di lutto sospeso – la ricercatrice statunitense Pauline Boss, che a questo tema ha dedicato vari studi, parla di «perdita ambigua»- con cui i familiari devono faticosamente fare i conti.
«La sparizione di una persona cara è sempre una situazione inconsueta cui non siamo preparati, non abbiamo esperienza per gestirla», spiega Anna Sozzi, psicologa e psicoterapeuta, segretario dell’associazione di volontariato Sipem SoS e referente per le persone scomparse in Emilia Romagna. «Per questo è particolarmente destabilizzante e rischia di disgregare la famiglia coinvolta». Ecco perché è così importante poter contare su un esperto che aiuti a elaborare le emozioni vissute: «In casi come questi ci si trova a fare i conti con un “fantasma”, una persona che si pensava di conoscere, ma di cui si scopre che si ignoravano molte cose», prosegue la psicologa. Una situazione conflittuale per tutta la famiglia, in cui emergono sensi di colpa difficili da gestire, emozioni potenti e non sempre espresse.
«La prima sensazione è quella di panico, di terrore. In un primo momento si pensa al peggio, poi subentra lo smarrimento perché ci si trova in un limbo, in una situazione in cui non si sa che fare. E qui le associazioni create dai familiari di scomparsi possono intervenire, per dare consigli o suggerire l’intervento di uno psicologo», spiega La Scala. Il presidente di Penelope è uno dei pochi a guidare un’associazione senza essere coinvolto direttamente nella scomparsa di un familiare: la molla che ha fatto scattare in lui l’interesse per questi problemi, nel 2001, è stata la vicenda di un giovane finanziere scomparso dopo che il motoscafo su cui si trovava era stato speronato dallo scafo di un gruppo di contrabbandieri.
Travolti dagli eventi
A prima vista sembra difficile identificare la sparizione di un congiunto come «emergenza», ma lo è dal punto di vista di chi la vive: si spiega così perché a occuparsene siano gli psicologi dell’emergenza, come Anna Sozzi o come Fabio Sbattella, responsabile dell’Unità di ricerca in psicologia dell’emergenza e dell’intervento umanitario dell’Università Cattolica di Milano. «Dal punto di vista legale, è il prefetto a stabilire che cosa sia un’emergenza e che cosa no, ma dal punto di vista psichico definiamo così una situazione che ha caratteristiche precise: la percezione di una minaccia, la sensazione di essere travolti da eventi di fronte ai quali ci sentiamo impotenti, emozioni intense e al tempo stesso la necessità di prendere decisioni rapide», spiega Sbattella.
Negli ultimi anni l’attenzione su questi temi è aumentata. Dal 2007 è stato istituito in Italia un Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, con l’incarico di coordinare gli interventi in materia e monitorarne l’efficacia. Un insieme di norme che definiscono le modalità con cui devono essere accolte e gestite le segnalazioni per attivare i percorsi di ricerca, che variano a seconda del contesto, e le indagini di polizia che servono per identificare eventuali reati, come la possibilità di un rapimento. Una procedura che comprende un sostegno psicologico per le famiglie, da realizzare in collaborazione con l’Ordine degli psicologi e le associazioni di volontariato. «In realtà si tratta di un processo in via di definizione, dato che parliamo di una normativa recente: in questo settore non c’è ancora una cultura dell’intervento psicologico», osserva Nevia Monaco, psicoterapeuta responsabile di Sipem Friuli Venezia Giulia. «Spesso gli psicologi sono coinvolti solo quando si trova un corpo, senza la possibilità di intervenire nelle prime fasi della scomparsa. Per questo ci stiamo attivando per formare e sensibilizzare le varie figure professionali coinvolte».
Sono varie, infatti, le figure che si muovono attorno alla famiglia dal momento in cui, esaurita la speranza di risolvere il problema contattando amici o parenti, si decide di rivolgersi alle autorità, attivando al tempo stesso ricerche e indagini. Un momento in cui si ammette che qualcosa è successo, senza sapere che cosa. «Chi vive in questa situazione non sa se la persona scomparsa sia rimasta vittima di un incidente, sia stata rapita o abbia deciso di allontanarsi volontariamente», spiega Sbattella. «In casi come questi si scopre di non conoscere il proprio familiare bene come si vorrebbe. Anche le domande di routine formulate dagli inquirenti generano nuovi dubbi, ci si rende conto di ciò che non si sa».
Situazioni congelate
In ogni caso, è un momento in cui è necessario attivarsi: ci sono cose da fare in tempi brevi, manifestini da affiggere, informazioni da fornire: «Riuscire a farlo può essere utile, perché dà la sensazione di recuperare il controllo sulla vicenda, oltre a essere di aiuto a chi svolge le indagini», osserva Sozzi. Ma non tutti reagiscono allo stesso modo, «ci sono persone che si attivano immediatamente, salvo poi crollare quando l’emergenza sembra conclusa, e altre che tentano di sfuggire a una situazione troppo pesante, oppure restano “congelate”, non riescono a prendere iniziative, un’incapacità che vivono con frustrazione e sensi di colpa», osserva la psicologa. In un momento come questo l’intervento degli psicologi può essere di aiuto per recuperare lucidità: «Il nostro primo obiettivo è tutelare i soggetti più deboli, i bambini o le persone più fragili, ma anche aiutare le persone a contenere il dolore e a mantenere comportamenti efficaci per quanto riguarda la ricerca», osserva Sbattella.
Si tratta di una fase delicata, in cui c’è il rischio di confondere i diversi ruoli. «È giusto che un poliziotto o un magistrato abbiano una sensibilità psicologica, ma il loro ruolo non è quello di assistere le famiglie», osserva Sozzi. «Gli stessi psicologi in alcuni casi agiscono come consulenti, supportano le indagini occupandosi per esempio di profiling. Ma se sono chiamati ad assistere la famiglia la loro priorità è quella, e devono tenere conto dell’obbligo di riservatezza nei confronti delle persone di cui si stanno occupando». Il presidente di Penelope La Scala sottolinea che esiste anche un problema di priorità: «Gli psicologi sono certamente tenuti a mantenere riservate le informazioni che ottengono dalla famiglia», osserva. «Tuttavia le informazioni che permettono di ricostruire la personalità dello scomparso possono contribuire al ritrovamento. E in questo caso potrebbe essere giustificato riferirle agli investigatori»
 
Ogni caso è diverso
Ovviamente ogni scomparsa è un caso a sé, si tratti di un bambino o di un anziano, di un paziente psichiatrico o di una persona che vive situazioni conflittuali, in famiglia o sul lavoro. Esistono poi casi particolari, quelli in cui non si tratta di una singola scomparsa. «Quando ci si riferisce a un evento puntuale come una calamità naturale, un incidente o un attentato non si parla di scomparsi ma di dispersi», osserva Sbattella. «E anche dal punto di vista psicologico c’è qualche differenza, perché il fatto che la scomparsa sia legata a un evento fornisce una parte delle spiegazioni che mancano ai familiari di chi si allontana da casa senza un motivo apparente».
Può anche succedere, come testimoniano cronache recenti, che persone sole di cui nessuno aveva denunciato la scomparsa siano trovate morte in casa o altrove dopo mesi o anni. «Oppure che una persona si allontani volontariamente da casa, magari perché non ha avuto il coraggio di dare spiegazioni o di parlare dei suoi problemi», spiega Sozzi. «Un fatto che crea altre complicazioni, perché per un maggiorenne in buona salute le ricerche non partono subito, anche se adesso si tende a intervenire più sollecitamente rispetto al passato».
Un caso particolare, e forse uno dei più frequenti, è quello della scomparsa di malati di Alzheimer: spesso si tratta di malati nelle fasi iniziali della demenza, che è caratterizzata da perdita di funzioni cognitive e difficoltà di orientamento, e che possono allontanarsi da casa ma anche da una struttura, «tanto
che adesso – spiega La Scala – si sta valutando la possibilità di utilizzare braccialetti elettronici con un sistema GPS, che potrebbero aiutare a tutelare persone con demenza o disabilità psichiche». Si tratta comunque di una situazione che può accentuare i sensi di colpa dei familiari, «la sensazione di aver sotto- valutato segnali di allarme o non avere fatto abbastanza», osserva Monaco. E la denuncia della scomparsa è al tempo stesso una presa d’atto delle condizioni di salute del familiare: «In questi casi il fattore tempo è particolarmente importante, perché queste persone, anche se in genere non si allontanano molto, possono isolarsi o a nascondersi», prosegue la psicologa.
«Il difficile è ammettere quello che sta succedendo: le famiglie tendono a minimizzare, spesso la demenza – come la malattia mentale – è vista come una vergogna, si esita a sporgere denuncia e a fornire ai soccorritori informazioni corrette». Anche per questo può essere utile il supporto di un professionista che faccia da filtro tra soccorritori e famiglie. Un supporto che in genere le famiglie accettano – «quando si è in difficoltà si è più aperti a sperimentare», osserva Sozzi – mentre in un secondo tempo in genere subentrano le associazioni di famiglie. «In una situazione come questa – spiega Sbattella – l’elemento dirompente è il silenzio, che ha effetti distruttivi perché diventa uno spazio proiettivo in cui le persone scaricano la loro immaginazione e le loro angosce». Una situazione che non permette di dare un senso a quanto sta accadendo, e porta a un continuo rimuginare che si sviluppa dalle prime ore dopo la scomparsa, per poi proseguire negli anni.
Alcune sparizioni poi attirano l’interesse dei media: «È logico che queste vicende coinvolgano la comunità in cui avvengono, e l’attenzione della stampa è anche un modo per tenere vivo l’interesse su una vicenda e diffondere informazioni», spiega Sozzi. «In genere sono proprio le famiglie a richiederlo». Con tutti i rischi del caso, primo fra tutti quello della spettacolarizzazione: «le famiglie devono essere protette, aiutate a gestire un rapporto corretto con i media, senza dimenticare che un caso di richiamo nazionale può attirare individui che sono solo interessati alla notorietà, e non si preoccupano di rispettare i sentimenti delle famiglie», osserva La Scala. Resta il fatto che il ruolo di stampa e televisione è importantissimo per diffondere appelli, anche se oggi in parte sono i social media a supplire a questa esigenza, «con i problemi che può creare uno strumento così poco controllabile», ricorda Sbattella. «E senza dimenticare che spesso le famiglie non sono consapevoli dei meccanismi e delle dinamiche dei mezzi di comunicazione, e non riescono a usarli senza farsene travolgere».
Rabbia e conflitti
La situazione si fa più drammatica con il passare dei giorni, delle settimane, dei mesi. «Nelle prime ore c’è speranza, e una grande attivazione dei soccorritori, anche perché le ricerche entro le prime 48 ore sono quelle che hanno la massima possibilità di avere un esito positivo», dice Sbattella. Con il passare del tempo le indagini rallentano, l’attenzione si affievolisce, e per la famiglia che ha vissuto lo strappo si apre un momento di solitudine e di vuoto doloroso. «Uno dei sentimenti che subentrano è la rabbia – spiega La Scala – rabbia rivolta verso le istituzioni, che a loro dire sottovalutano il problema, ma anche un sentimento di rabbia verso chiunque non assecondi immediatamente una richiesta della famiglia»
È vero che a volte ci sono risposte inaccettabili – «ci sono famiglie che si sono sentite dire che gli investigatori non hanno tempo da perdere», ricorda La Scala – ma è comprensibile che le forze dell’ordine si spostino su altre indagini, particolarmente quando i fatti si sono svolti in modo tale che i familiari restano i soli a sperare in un esito positivo. «Una sparizione crea tensione all’interno della stessa famiglia», sottolinea Sbattella. «In una situazione come questa c’è il male che ci aggredisce, e si tende a reagire colpendo chi ci è più vicino: aumentando o mettendo in evidenza le crepe a livello relazionale».
Il rischio è che chi vive il dramma della scomparsa con più intensità percepisca ogni tentativo di ritorno alla normalità come un venir meno alla memoria di chi è assente, una situazione che può essere pesante per figli o fratelli. «Eppure in queste situazioni è fondamentale che i familiari non siano soli», afferma La Scala. «Se c’è un unico familiare rischia di impazzire, chi ha nipoti o altri figli può riprendersi, anche se lentamente. Uno dei nostri compiti è proprio quello di non lasciare sole queste persone, di creare per loro relazioni, occasioni di incontro: in questo modo ho conosciuto persone fantastiche, con una forza incredibile, che riescono a superare il loro dramma occupandosi degli altri».
Il ruolo del gruppo
Per alcuni il fatto di potersi occupare di altre famiglie che vivono lo stesso dramma diventa una ragione di vita. «Le associazioni di familiari svolgono un ruolo importante: è una possibilità di dare e ricevere supporto, di conoscere persone che hanno vissuto esperienze simili, che sono in qualche modo la prova che per quanto l’esperienza sia dolorosa si può sopravvivere», aggiunge Sbattella. In questo modo si condividono le emozioni di tutti, e può succedere che il ritrovamento di un corpo, la soluzione di un caso sia di aiuto per chi sta ancora aspettando. «Per molti familiari creare un’associazione o fame parte è stato un modo per andare avanti», aggiunge Sozzi. E in qualche caso anche raccontare in un libro la propria esperienza – da soli o con l’aiuto di uno scrittore – può essere un modo per metabolizzare l’accaduto, oltre che per tenere alta l’attenzione sulla propria vicenda: «In ogni caso – spiega la psicologa – raccontare un’esperienza è un modo per dare un significato a quanto accaduto, sia per gli interessati sia per la comunità che l’ha vissuta».
Molti casi si concludono con il ritrovamento di un cadavere, «e allora il nostro compito è quello di gestire il momento della comunicazione della notizia, e l’accompagnamento al riconoscimento, che è necessario per avviare il processo di lutto», spiega Sbattella. «Il ricongiungimento con il corpo dell’altro è fondamentale per riuscire ad accettare la realtà della morte». In questo modo vengono meno le speranze, ma anche l’incertezza, e può cominciare un lento processo di accettazione. «C’è stato chi dopo il ritrovamento del corpo mi ha detto di sentirsi fortunato nel dolore, perché il suo lutto si era in qualche modo materializzato», osserva La Scala. «Anche quando a livello razionale si capisce che non ci sono speranze è difficile rassegnarsi se non c’è un cadavere, o notizie certe come succede per esempio nei casi di lupara bianca».
Opportunità di crescita
Ci sono però purtroppo casi in cui l’attesa continua senza soluzione. Le istituzioni progressivamente si ritirano – anche se la pratica rimane aperta, e oggi esistono nuovi strumenti per gestire questi casi, come la banca dati dei cadaveri non identificati – e inevitabilmente le famiglie si sentono abbandonate a loro stesse. «In questi casi il percorso del lutto si fa più complesso – spiega Sbattella di un corpo perché il processo di elaborazione parte dalla presa d’atto di un evento ben definito, una morte che permette di cominciare a lasciar andare le parti dell’altro che abbiamo dentro di noi, pur conservandone la memoria».
Farlo è sempre molto difficile – pensiamo a quante madri lasciano intatta la camera del figlio morto – ma diventa quasi impossibile quando non esistono una traccia biologica o un corpo. «Di fronte a una morte può esserci il rifiuto di accettarla, ma in casi come questi è impossibile fare diversamente», osserva Sozzi. «Non trovare il corpo è la situazione peggiore». In particolare per una società come la nostra, che fa comunque fatica ad accettare l’idea della morte, la scomparsa genera una disorganizzazione emotiva da cui è difficile riprendersi. «Il rischio è quello di sentirsi in colpa se si sta bene, come se fosse una perdita di interesse nei confronti dell’assente», spiega Sbattella. «Spesso nelle famiglie c’è una dinamica di richiamo reciproco all’attenzione su quanto è accaduto, da cui è difficile sganciarsi».
Senza contare che una scomparsa è fonte di problemi anche dal punto di vista giuridico: «Una persona che si assenta lascia rapporti in sospeso, mutui o contratti e altro ancora: se si tratta di un adulto viene involontariamente meno agli obblighi di assistenza familiare, ed è per questo che consigliamo di sporgere denuncia», osserva La Scala. «Il codice prevede che dopo due anni possa essere fatta una dichiarazione di assenza che permette di operare in nome dello scomparso, e dopo dieci la dichiarazione di morte presunta».
Ma vicende come queste coinvolgono dal punto di vista emotivo anche chi partecipa alle ricerche o assiste le famiglia. «Può essere utile fornire a questi operatori, e agli stessi psicologi che lavorano con le famiglie degli scomparsi, il supporto di qualcuno che li aiuti a elaborare l’esperienza», spiega Sbattella.
Ci sono casi che colpiscono più degli altri, come quelli delle persone sole, di cui nessuno ha denunciato la scomparsa e che vengono ritrovate per caso. E soprattutto la scomparsa di bambini: «Chi nella mia regione ha seguito il caso del piccolo Tommy, il bambino rapito e poi ucciso, è rimasto segnato dall’esperienza, in qualche modo è “rimasto lì”», spiega Sozzi. «Sono ferite difficili da rimarginare, e parlo di poliziotti, di persone che seguono queste vicende per lavoro».
Ci sono poi casi in cui la persona scomparsa viene ritrovata in tempo, o torna a casa autonomamente. «Anche in caso di esito positivo, la storia dal punto di vista psichico è tutt’altro che conclusa», spiega Sbattella. «Se, come a volte avviene, si tende a “mettere una pietra sopra” a quanto accaduto c’è il rischio che il fuoco continui metaforicamente a covare sotto la cenere». Si è verificata una trasformazione psichica, e per elaborare lo choc e ricucire i legami che si sono infranti tutti i protagonisti della vicenda hanno bisogno di tempo e di supporto psicologico. «In alcuni casi può bastare qualche incontro guidato da un professionista per rielaborare le emozioni vissute», conclude Io psicologo «Se ci si lavora attivamente, può essere un’occasione per trasformare un’esperienza tragica in un’opportunità di crescita».