Mente&Cervello, 28 ottobre 2015
Storie di padri dittatori e di figlie che hanno vinto il complesso di edipo. Da Svetlana Aliluyeva che riuscì a ripudiare Stalin quando seppe la verità sulla morte della madre ad Ana Mlavic che si suicidò quando capì che il suo eroe, Ratko Mlavic, aveva mandato al frante il suo fidanzato per farlo morire
A volte i legami tra padri e figlie possono assumere la dimensione di un caso estremo, come dimostrano le storie di due feroci dittatori
La relazione tra padri e figli è uno dei capitoli più importanti nella dinamica familiare e della crescita delle nuove generazioni, che si lega anche a un’autorità credibile, a una figura di riferimento che giunga fino alla proiezione ideale. Il legame con la madre, almeno nella maggior parte dei casi, si fonda sull’empirismo e acquista un significato per i problemi del quotidiano. Una figura tradizionalmente più concreta, proprio perché più presente e più attenta alle «piccole cose».
I padri oggi sono definiti come assenti, attenti solo alla dimensione economica, violenti, continuamente messi sotto processo e colpevolizzati: un quadro che rende persino difficile delineare oggi questa figura al positivo, che va poi diversamente coniugata quando il padre si relazioni con una figlia oppure con un figlio maschio.
Per fare un riferimento a Sigmund Freud, il rapporto tra padre e figlia si caratterizza nella prima infanzia (il tempo del complesso edipico, dai 4 ai 6 anni) come legame d’amore, mentre quello tra padre e figlio è di rivalità e di competizione. Anche dopo l’infanzia, il legame tra padre e figlia è abitualmente meno conflittuale rispetto a quello con il maschio. Insomma, sovente la figlia vede nel padre il proprio piccolo eroe, il proprio defensor.
Josif e Svetlana
In questa cornice, oltre alla dimensione psicologica, anche quella storica presenta casi di legame tra padre e figlia, non solo singolari ma potremmo dire estremi. Vorrei fare subito qualche riferimento per dare concretezza a questa affermazione.
Josif Vissarionovic Stalin ha avuto un’unica figlia femmina, Svetlana Aliluyeva, nata il 28 febbraio 1926 quando il padre aveva 48 anni ed era il capo supremo del Partito comunista sovietico e dell’Unione Sovietica. Stalin era letteralmente innamorato della figlia, e fu da lei contraccambiato fino a quando raggiunse i 17 anni, a differenza del figlio Yakov, che aveva invece una relazione conflittuale con il padre e arrivò a un tentativo di suicidio che Stalin commentò in questo modo: «È così inutile che non sa nemmeno uccidersi».
A 17 anni Svetlana venne a sapere che la madre non era morta nel 1932 per malattia. La cronaca sembra essere stata infatti la seguente: nel novembre di quell’anno si tenne al Cremlino un grande banchetto per commemorare il 15° anniversario della Rivoluzione. Stalin ordinò alla moglie di bere alcool in pubblico, ma Nadya si rifiutò. Il marito insistette con toni violenti, lei si alzò da tavola e, di corsa, raggiunse il proprio appartamento dove si suicidò. Alla figlia avevano detto che era morta di appendicite, ma voci sostengono addirittura che fosse stata uccisa dal marito, che la seguì in quella fuga. Quando Svetlana si rese conto che quel legame ideale era in realtà una «mostruosità», ruppe ogni di rapporto e giunse (anni dopo) a denunciare il comportamento del padre. Lasciò la Russia, chiedendo asilo politico agli Stati Uniti. Parlò di disturbo paranoico nel padre, e anche del terribile ruolo che ebbe Beria, il capo della polizia segreta, nelle atrocità commesse dal padre.
Il boia dei Balcani
Sempre guardando alla storia, emerge un altro rapporto estremo tra padre e figlia, ed è quello tra Ratko Mladic e Ana Mladic.
Ana nasce nel 1971, il padre è già ufficiale dell’Armata popolare della Jugoslavia. Tra padre e figlia vi è un rapporto idilliaco. Ana vede nel padre un eroe non solo del suo mondo personale, ma nazionale: vuole riportare la Serbia alla grandezza storica che merita e che ha come riferimento il principe Lazar, che nella battaglia di Kosovo Polje del giugno 1389 aveva dato la vita nella difesa estrema della identità nazionale contro gli Ottomani. Per Ana è un padre perfetto, mentre per la storia è il «boia dei Balcani», il responsabile della sanguinosa strage di Sarajevo iniziata il 5 aprile 1992 e durata due anni, in cui aveva dato ordine di bombardare giorno e notte la città, di sparare sui civili, di violentare le donne musulmane in un’operazione che definì «stupro etnico».
Ana Mladic ha 23 anni ed è una studentessa modello, iscritta all’ultimo anno della Facoltà di medicina a Belgrado. Va in vacanza a Mosca, e qui inizia a scoprire una cronaca diversa di quell’eroe. E non si tratta solo di versioni politiche, poiché al ritorno è lei stessa a leggere sui diari di guerra scrupolosamente redatti dal padre fatti che hanno l’effetto di una vera distruzione dentro di sé. Scopre persino che un giovane con cui era stata fidanzata e che il padre non gradiva era stato volutamente mandato a morire sul fronte bosniaco.
Il 24 marzo 1994, ha 23 anni, Ana si suicida usando un mezzo particolare: si spara con una pistola Zastava calibro 7.65 che era stata regalata al padre dai compagni di corso quando era uscito dall’accademia militare. Si tratta di un oggetto particolare perché Ana era l’unica a cui il padre permetteva di pulirla, smontarla e ricomporla insieme a lui.
Non aveva potuto tollerare che il suo eroe fosse un uomo infame, e non sapeva ancora di una crimine ancora più disumano: il massacro di Srebrenica. L’11 luglio 1995 il generale Mladic, allora Capo di Stato maggiore della Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina, entrava nell’enclave musulmana e, sfidando il controllo dei caschi blu, dava l’ordine di sterminio di 9000 persone.
Un odio selvaggio che non può trovare comprensione nemmeno nelle vicende personali di Radko Mladic, che aveva perso il padre a due anni, partigiano di Tito e ucciso dagli ustascia croati, e la moglie uccisa da una granata musulmana attorno a Sarajevo. Un massacro d’odio che egli aveva trasformato nel sogno di purificare con il sangue la Grande Serbia.
Due figure inconciliabili
È su questa storia che Clara Uson ha ricostruito la relazione tra Radko e Ana Mladic (Clara Uson, La figlia, Sellerio, 2013). Sia pure nello stile di una cronaca romanzata, il libro riporta testimonianze su come Ana viveva la figura del padre che rendono ancora più evidente la sua impossibilità di farla coesistere con la figura storica del generale Mladic che scopre. Un’elaborazione impossibile, come se tutti i meccanismi di un’elaborazione psichica non potessero trasformare quella figura per mantenerla ancora entro di sé.
Quel padre che «aveva fatto dell’altruismo la sua divisa... che era di una integrità allucinante... aveva solo una debolezza: Ana... e lei voleva essere degna di suo padre. Era consapevole di quanto lo rendessero felice i suoi voti eccellenti... Figliolo, le diceva (era una sua abitudine, un gesto affettuoso chiamarla al maschile)... non ho mai potuto sgridarti per non esserti applicata abbastanza negli studi». Così aveva tentato di giustificarsi di fronte alle domande della figlia: «I media occidentali facevano sempre la stessa cosa: mostrare foto di bambini morti o mezzo massacrati per suscitare indignazione contro l’esercito serbo».
Anche Ana credeva all’unità dei serbi, la Patria, la Bandiera; era convinta che i soldati lottassero per le generazioni future e sentiva «il privilegio di essere la figlia di un brav’uomo che era anche un grande eroe, sul modello del principe Lazar».
Ma dopo il viaggio in Russia le dicevano: «Sei cambiata da quando sei tornata dalla Russia, non sei più tu...» [e a bassa voce dicevano tra loro] «per ogni vita che lei salverà, suo padre avrà lasciato dietro di sé migliaia di cadaveri». [Lei aveva sentito] «e quelle parole la colpivano, erano ingiuste ma vere». E ancora: «Aveva l’impressione di essere circondata di immondizia; non sapeva più cosa era bene e cosa male, a chi credere, come comportarsi. Fingere di non sapere... Era figlia di suo padre: non poteva».
«Verso le 4 e mezzo [del 24 marzo 1994] si era sentita una forte detonazione, Ana giaceva a terra stesa su un fianco. Nella mano sinistra stringeva una pistola, la vecchia Zastava. Il proiettile le aveva trapassato la tempia ed era rimasto conficcato nella parte superiore del cranio».
Forse avrebbe voluto lei stessa uccidere quel generale, ma non poteva: era suo padre. Non è possibile uccidere il padre per una figlia. Sarebbe risultato incomprensibile persino per l’Edipo.