Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2015
Le imprese italiane fanno ricerca, e anche molta. Il problema è, semmai, il sistema Paese, che dovrebbe fare di tutto per incentivarla a ogni livello. Qualche progresso s’incomincia a vedere, ma moltissimo resta ancora da fare (e rassegnarsi alla fuga dei cervelli è un errore imperdonabile)
C’è un luogo comune difficile da sfatare: le imprese italiane fanno poca ricerca. È vero che le statistiche internazionali lo certificano, ma è altrettanto vero che la ricerca applicata, di prodotto e di processo, spesso sfugge ai numeri ufficiali.
Come potrebbero, senza ricerca, senza molta ricerca, le multinazionali tascabili italiane competere sui mercati globali in settori come i superconduttori, la chimica di specialità o la meccanica di precisione? Come potrebbero conquistare la leadership dei settori più sofisticati a scapito di colossi multinazionali tedeschi, francesi o americani che sono in testa alle classifiche degli investimenti in ricerca? Sarebbe impossibile. Allora come si spiega l’arcano? Semplicemente le spese in ricerca delle imprese italiane, molto spesso, si disperdono in rivoli diversi dei bilanci e perdono massa critica nelle classifiche.
Le imprese italiane fanno ricerca ma il sistema Paese, pubblico e privato, su questo non ci sono dubbi da parte di alcuno, avrebbe bisogno di incrementarla, semplicemente per aumentare la competitività. Ma nonostante la consapevolezza di ciò sia diffusa, gli strumenti per incentivare la ricerca, la collaborazione tra Università e imprese private sono insufficienti.
Il Piano nazionale per la ricerca aspetta il via libera definitivo del Cipe che dovrebbe arrivare nella prima metà di novembre. Sarebbe un primo passo, di non secondaria importanza. Un buon inizio.
Mancano ancora però strumenti concreti per rendere la ricerca conveniente, anche economicamente conveniente, alle imprese, a partire dalle più piccole. La leva fiscale, nel Paese con la più alta pressione fiscale dell’Occidente, potrebbe essere una molla decisiva. Sgravi, detrazioni, deduzioni, incentivi, aiuti in qualunque formula sarebbero meglio del poco che c’è adesso. La legge di stabilità è ancora in discussione: sperare che si trovi il modo di aumentare le scarse risorse disponibili è ottimistico, ma sarebbe davvero salutare per il sistema Paese.
Infine, aver riposto nel cassetto della rassegnazione, il progetto di far tornare in Italia i cervelli in fuga, i ricercatori da tempo nelle Università di tutto il mondo è un errore imperdonabile. Difficile convincere professori e ricercatori affermati a tornare, d’accordo. Ma è innegabile che incoraggiare i giovani migliori a restare con misure concrete – aiuti, borse di ricerca, corsie preferenziali di ingresso nelle Università, sgravi alle imprese che ne finanziano i progetti – sarebbe un investimento sul futuro del Paese. Dal ritorno sicuro.