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 2015  ottobre 28 Mercoledì calendario

La storia dei concorsi all’Agenzia delle entrate, impediti da una piccola sigla sindacale che si chiama Dirpubblica

Capita, nell’interessante procedere del dibattito italiano, che si perda il filo dei fatti sottostanti al dibattito stesso. Lo scontro fra il governo e l’Agenzia delle Entrate ad esempio. Cosa c’è a monte di questo enorme pasticcio? Perchè otto fra i migliori dirigenti dell’amministrazione fiscale hanno accettato proposte di lavoro meglio pagate in grandi studi legali o di consulenza? Sappiamo già che a febbraio una sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato illegittima una norma, approvata dal governo Letta, che prorogava le procedure di nomina interna. E sappiamo che in virtù di quella sentenza ottocento dirigenti dell’Agenzia si sono ritrovati con lo stipendio più che dimezzato, da una media di quattromila a 1.700 euro al mese. Ma perché il governo Letta, e prima ancora quello di Monti, avevano detto sì alla proroga? Per capire fino in fondo la genesi di questa storia, per capire i danni che possono essere provocati all’Amministrazione fiscale di uno dei più grandi Paesi del mondo da pratiche e regole mai chiare, occorre risalire a giugno 2008, quando Giulio Tremonti nomina Attilio Befera ai vertici dell’Agenzia delle Entrate.
Quelli sono gli anni in cui l’Agenzia cresce in dimensioni e qualità. È durante la sua gestione che nasce una vera struttura dedicata alla riscossione (Equitalia) prima svolta con enormi costi e pessimi risultati da società private delle banche. Quelli sono gli anni in cui l’Agenzia assume una maggiore autonomia organizzativa, così come previsto dalla legge istitutiva del 2001 e, secondo i critici, si trasforma in una sorta di ministero delle Finanze. In ogni caso: per Befera l’autonomia si doveva garantire con carriere interne che permettessero di valorizzare le migliori professionalità, così come avviene normalmente alla Consob o alla Banca d’Italia. Lo strumento al quale fa ricorso Befera è legittimo e tuttora in vigore: l’articolo 19 della legge 165, anch’essa del 2001, quella che permette sì la nomina di dirigenti, ma a tempo determinato. Fin qui, tutto torna. Ma perché il numero uno dell’Agenzia utilizza esclusivamente quella strada?
Qui viene il bello: perché dalla nascita dell’Agenzia un concorso pubblico per la nomina dei dirigenti non si è mai svolto. Né durante la gestione Befera, né durante quella del predecessore Raffaele Ferrara, né negli anni del direttore preferito dai governi di centro-sinistra, Massimo Romano. L’ultimo concorso regolarmente concluso risale al 1999, ed è – ironia della sorte – quello che permise all’attuale numero uno Rossella Orlandi di iniziare la scalata ai vertici. All’Agenzia qualche dirigente di ruolo assunto dopo il 1999 esiste, ma solo perché arrivato da altri uffici statali. Di concorsi ad hoc per i dirigenti dell’Agenzia ne sono stati banditi ben tre, ma ciascun bando è stato sistematicamente bloccato dai ricorsi di una piccola sigla sindacale, «Dirpubblica». Il resto è opera del lento procedere della giustizia amministrativa: il primo concorso è stato annullato dopo una serie di ricorsi e controricorsi, il secondo è stato riaperto dopo anni di calvario giudiziario (e si deve ancora svolgere), sul terzo pende una pronuncia attesa per il 17 novembre. C’è un ma: ciascuno di questi concorsi avrebbe dovuto svolgersi secondo i criteri classici, ovvero senza tenere conto dei titoli e dei galloni conquistati dai candidati all’interno dell’Agenzia. Di qui il sospetto – tuttora presente nel governo – per il quale i vertici dell’Agenzia non hanno mai combattuto seriamente per risolvere davvero il problema. Vero o no, dietro a quel sospetto c’è un bel pezzo delle incomprensioni di questi giorni fra il governo e la Orlandi.