la Repubblica, 28 ottobre 2015
La capitale del terrorismo islamico è Olbia. Qui è stato organizzato l’attentato di Peshawar del 2009 (cento morti)
CAGLIARI. Al Qaeda Italia va alla sbarra. Con le sue bombe, i kalashnikov, le esecuzioni talebane, i corpi mutilati «in nome di Allah». E un fiume di denaro sporco di sangue. Drenato dalle collette delle comunità musulmane del nostro Paese (e della Norvegia) e trasportato (anche) in aereo da Roma a Islamabad dai sodali “italiani” di Osama Bin Laden: una cellula jihadista attiva – dal 2005 al 2015 – tra la Capitale, Olbia e Bergamo. Una cellula «strutturata» e «bene organizzata» che progettava di colpire anche in Italia.
Per capire il peso e l’urgenza del decreto di giudizio immediato con cui il gip Ermengarda Ferrarese manda a processo 11 presunti terroristi (sono quelli finiti in manette, 19 complessivamente gli indagati) della rete qaedista sgominata a aprile dalla procura di Cagliari, bisogna leggere con attenzione il provvedimento.
A partire dal capo di imputazione più grave: strage. Ce n’è una, in particolare, incisa nella storia degli attentati che insanguinano da anni Pakistan e Afghanistan: 28 ottobre 2009. A poche ore dall’arrivo a Islamabad del segretario di Stato americano, Hillary Clinton, un’autobomba esplode nel mercato Meena Bazar, a Peshawar, falciando oltre 100 persone e ferendone 200.
Eccoli, stando alle accuse di Danilo Tronci – il pm che coordina l’inchiesta sfociata in quello che si può definire, di fatto, il primo processo istruito contro Al Qaeda dalla magistratura italiana – cinque dei responsabili di quella strage. Si chiamano Ridi Yahya Khan, Siyar Khan, Sultan Khan, Imitias Khan e Sher Khan, quest’ultimo latitante. Tutti pachistani tranne Ridi, afgano. Stesso cognome, stesso carcere di Rossano calabro. Riassume il gip: «Assieme ad altri soggetti, non ancora identificati, hanno fatto deflagrare un potente ordigno nel mercato cittadino Meena Bazar…». Dov’è stata organizzata la strage? «In Italia, segnatamente a Olbia». È nella città gallurese che viveva e operava Imitias Khan. Quel 28 ottobre, però, Khan è a Peshawar. «La terra tremava dall’esplosione! – nel mercato si apre un cratere —. Gli ho detto “ringraziate che siete salvi”», confida al telefono un suo complice. Tirando il filo che tiene insieme oltre 4mila conversazioni – telefoniche e ambientali – e seguendo gli spostamenti degli jihadisti in stretto contatto con il capo di Al Qaeda Osama Bin Laden, la procura cagliaritana mette in cornice un quadro accusatorio di fronte al quale il gip, adesso, decide di procedere con giudizio immediato. La prima udienza è fissata per il 17 dicembre davanti alla Corte d’Assise di Sassari. Gli imputati, tra i quali spicca l’ex imam di Bergamo, Muhammad Hafiz Zulkifal, ritenuto il capo dell’organizzazione, dovranno rispondere di una sfilza di reati: strage, attentato, omicidio, oltreché, ovviamente, costituzione di associazione terroristica e finanziamento della stessa.
Gli obiettivi? «Infrastrutture, esponenti di istituzioni pubbliche e fedeli di altre religioni». Tra 2009 e 2011, in Pakistan e Afghanistan, il tritolo e i mitra dei qaedisti hanno colpito mercati, scuole, linee elettriche, auto della polizia. I soldi per finanziare il terrore la cellula li raccoglieva attraverso una fitta rete di collette «presso le comunità pakistano-afgane della Sardegna, del Lazio, delle Marche, della Lombardia. Ufficialmente – annota il gip – rivolte a scopi umanitari, ma in realtà destinate al finanziamento dell’attività terroristica». «Per favore manda 50 milioni», è uno degli sms inviati nel 2011 all’imam Zulkifal. Subito dopo vengono elencate le “commissioni eseguite”: «spedito tre persone all’inferno», «fatto saltare una scuola in Bannu», «militari ammazzati». Ma come arrivavano in Pakistan i soldi raccolti tra le moschee e i bazar italiani? Con l’”hawala”, il sistema informale di trasferimento di valori utilizzato da 1,5 miliardi di musulmani nel mondo. È “informale” il viaggio aereo che tre imputati (Zubar Alì, Muhammad Siddique e Hazraf Jamal) fanno da Roma-Fiumicino a Islamabad il 25 settembre 2011 per trasportare 50mila euro. Altri 55mila euro li porta in volo – stessa tratta, due anni prima – Ahmad Zahir. Soldi. Come quelli che Ridi Khan riesce a tirare su tra le comunità islamiche norvegesi. Come quelli che servivano a confezionare «documenti falsi per i clandestini», alcuni in odore di affiliazione, fatti entrare in Italia e diretti in Francia e Inghilterra. Poi c’è il milione di euro che la Digos trova in una casa a Roma.
Roma è anche uno degli obiettivi della cellula. Il 19 settembre 2010 un tale “Umar Khan” parla a Zulkifal di un attentato da compiere nella Capitale. Gli dice: «Ci sono tanti soldi sul loro Papa. Stiamo facendo una grande jihad contro di lui». Zurkifal, difeso dall’avvocato Omar Hegazi, in un’intervista a Repubblica si è difeso così: «Sono un predicatore radicale, non un terrorista». Ora dovrà convincere i giudici.