Corriere della Sera, 28 ottobre 2015
Aldo Grasso sfotte Giletti che fa il soldato
Il soldato Giletti al fronte: in testa un specie di bandana, elmetto e giubbotto antiproiettile nelle zone più a rischio, giornalista embedded al seguito dei nostri soldati nel Kurdistan. Massimo Giletti si è dato al reportage nelle zone di guerra. Forse per lasciarsi alle spalle le liti domenicali dell’«Arena», forse perché gli uffici stampa del ministero della Difesa hanno una concezione tutta loro di autorevolezza.
Naturalmente i nostri soldati non vengono mai mostrati in faccia (anche se la soluzione tecnica adottata non sempre è efficace) perché «loro, in quelle terre lontane, non devono poter essere riconosciuti. Sono lì solo per aiutare, per insegnare, per sorvegliare». «Uomini senza volto», regia di Roberto Campagna, racconta, sotto forma di reportage, il lavoro che i nostri soldati fanno per addestrare i peshmerga che combattono l’Isis (Rai1, lunedì, 23.50).
In una recente intervista, Giletti ha spiegato che la Rai non può abdicare alla logica del racconto: «Monica Maggioni, attuale presidente della Rai, ha fatto del racconto la sua cifra professionale e sono convinto che sia su questa linea. Lo stesso direttore generale, Antonio Campo Dall’Orto, è uno che conosce il prodotto. Spero che il reportage di lunedì sera sia uno stimolo anche per loro». Ecco, la presidente e il direttore generale sono avvertiti. Secondo una strategia militare ben sperimentata in Viale Mazzini, Giletti ha già dettato le regole: la sua vera cifra professionale è il racconto, pure lui conosce il prodotto.
«Uomini senza volto» si offre come un atto di accusa contro l’Isis (e questo è un bene), commenta la strategia mediatica dei fondamentalisti e la mediatizzazione del terrore. Ma il reportage appartiene in pieno alla retorica delle missioni di pace, del «peacekeeping», del «nascondiamo la faccia»: quando ci decideremo ad affrontare il «fascismo islamico»? Abbiamo i mezzi per affrontarlo? Per ora abbiamo solo i racconti del soldato Giletti.