Corriere della Sera, 28 ottobre 2015
I 448 corpi di Barbie, la bambola più decapitata della storia
Quando Barbie è nata, nel 1959 in un’America in fibrillazione che comincia ad assaporare i frutti (non ancora guasti) del consumismo, le donne vivono chiuse dentro casa. Quelle che lavorano non lo fanno per scelta di indipendenza, ma per garantire alla propria famiglia il «pacchetto standard», come lo chiamano i sociologi dell’epoca: casa, auto, tv. La mistica della femminilità di Betty Friedan uscirà solo quattro anni più tardi, nel 1963. Dopo la pubblicazione, Friedan racconterà di aver ricevuto moltissime lettere di donne che si erano riconosciute nelle pagine del libro e chiedevano aiuto perché alle proprie figlie fosse evitato di commettere il loro stesso errore: sposarsi troppo presto e rinunciare ai sogni di realizzazione professionale per dedicarsi esclusivamente alla maternità e alla vita casalinga.
Barbie piomba in quel mondo e fa scandalo: troppo seno, gambe troppo lunghe, occhi e bocca troppo truccate. Troppo tutto. Nei suoi successivi 56 anni di storia raccoglierà critiche a non finire, verrà celebrata e demonizzata, diventerà il capro espiatorio perfetto per tutta una serie di «guai» femminili (dall’anoressia all’attenzione spasmodica per il proprio aspetto).
Ma resta il fatto che sia stata la prima bambola a rompere con lo stereotipo della donna moglie e madre, lasciando spazio nel gioco delle bambine ad altre fantasie e a un nuovo mondo di sogni. Il primo Ken compare solo nel 1961 e resterà un «accessorio» nel magico universo sempre più ricco di Barbie, mentre di figli non si parla mai: se ci sono, appartengono ad altre, e scopo della loro esistenza è consentire a Barbie di svolgere, fra le tante professioni alla sua portata – medico, astronauta, diva del cinema, candidata alle elezioni presidenziali – anche quella di baby sitter.
Barbie è libera, indipendente, votata al proprio guardaroba e impegnata a scalare il mondo. I 448 pezzi, fra bambole e accessori, raccolti nella mostra Barbie the Icon che apre oggi al Mudec, Museo delle Culture di Milano, riflettono questa immagine di donna «realizzata». Ma il modello unico di essere se stesse di cui Barbie è campionessa mondiale – dentro un orizzonte estetico comunque asfissiante per i canoni rigidi che impone – non si è forse già trasformato in una nuova gabbia? La bambola che ha avuto il merito di rompere con i vecchi stereotipi non è diventata a sua volta uno stereotipo? Nel tour guidato alla mostra di giovedì 19 novembre parlerà anche di questo Laura Campanello, filosofa pedagogista che da bambina ha giocato con Barbie, arrivando anche a «torturare» la bambola, un atteggiamento più comune di quanto si creda, «nessun altro giocattolo ha subito e subisce tante decapitazioni, scotennamenti e mutilazioni», scrive Nicoletta Bazzano nel suo La donna perfetta, a riprova dell’amore/odio che Barbie ha sempre suscitato.
Barbie non è un giocattolo «pericoloso», ma non è neppure un giocattolo normale: la sua forza (il motivo per cui è tanto venduta e insieme tanto criticata) sta qui. Non è una bombola da accudire, ma un modello di femminilità. La mostra ne fa l’interprete delle trasformazioni estetiche e culturali dell’ultimo mezzo secolo, ne mostra i cambiamenti e le cinquanta diverse nazionalità prodotte dalla Mattel per «rafforzare la sua identità di specchio dell’immaginario globale», si legge nel catalogo dell’esposizione curata da Massimiliano Capella. Nella sala che precede le 5 sezioni della mostra, 7 pezzi iconici e rappresentativi per decenni dal 1959 ad oggi dovrebbero rispondere alla domanda «Who is Barbie?», chi è Barbie.
Ma la domanda, in fondo, resta inevasa. Barbie ha un corpo irreale (che alcuni studi hanno indicato come responsabile dell’insoddisfazione che le bambine coltivano nei confronti della propria fisicità, molto meno «perfetta»). Il suo guardaroba così ricco la rende una trasformista: ma in questo continuo cambiarsi di abito perché non leggere, invece della superficialità, l’invito a coltivare la buona abitudine di «cambiare se stesse» – perché poi ci pensa la vita a cucirci addosso abiti che ci vanno stretti?
Alla fine il mondo di Barbie, così affascinante, non può che tradire: crescendo si scopre che non è tutto rosa come aveva voluto farci credere. Resta il fatto che il mito resiste. Il «modello unico» funziona ancora? Le bambole che hanno provato a sfidarne il monopolio hanno giocato una carta diversa (le Bratz sono 4, le Winx 6): quella della scelta.