Corriere della Sera, 28 ottobre 2015
La donna madre di Henry Moore
M adri e figli, figure distese, rifatte, riproposte, ricreate in disegni e sculture. Sino all’ossessione, quasi. Nonostante ciò, ogni lavoro è un’opera a sé. E se talvolta si rischia di cadere nel patetico, alla fine c’è sempre qualcosa che salva l’artista.
Stiamo parlando di Henry Moore (1898-1986), l’ultimo artista moderno romantico inglese. Il prossimo 31 agosto ricorre il trentennale della sua morte e Roma l’anticipa con una esposizione nelle grandi aule delle Terme di Diocleziano (sino al 10 gennaio, catalogo Electa):77 lavori fra sculture (31)e disegni (46)che documentano le varie «stagioni» creative dello scultore gentiluomo. I disegni hanno anche una funzione didattica: «La scultura è troppo lenta, il disegno mi serve per fermare le idee che non farei in tempo a tradurre plasticamente».
Anche se spesso si tratta di opere già viste altrove (alcune provengono dalla Tate di Londra), la loro attrattiva rimane immutata. Tornano le straordinarie figure femminili sdraiate: pienezza di ventre e di seni, testa piccolissima (necessaria, diceva Moore, per sottolineare la validità del corpo). La donna madre, la Terra suggeriscono immagini familiari e remote. Lo scultore ha subìto il fascino dell’arcaico e del primitivo, l’influenza delle avanguardie degli anni Venti e Trenta (Picasso cubista, Archipenko, Laurens, Lipchitz, i surrealisti – con i quali partecipa alla mostra londinese del ’36 —, Brancusi). Da qui, il richiamo della figura agli elementi naturali e la sperimentazione d’un linguaggio che saggia l’astrattismo. La ricerca di grandi volumi fa sì che forma e spazio si integrino a vicenda. Le donne distese paiono un paesaggio della campagna inglese. Alla fine si ha l’impressione di trovarsi dinanzi a un artista ottocentesco lacerato fra classicismo e romanticismo ma che, in ultima analisi, ha una modernità che lo porta ad essere l’iniziatore della via britannica alla figurazione del Novecento.
Da dove viene questo modo di guardarsi intorno? Uno sguardo sulla sua biografia può essere illuminante. Figlio d’un minatore (le figure scavate?), una volta lasciata la natìa Castleford (Yorkshire), mentre lavora come insegnante, Henry Moore frequenta una scuola d’arte e gironzola per i musei di Londra: il British (civiltà primitive, scultura classica greca e romana, sculture monumentali del Messico precolombiano, forme ancestrali), ma anche quello di Scienze naturali. La vista di piccoli insetti e grandi scheletri di mammut, uccelli, fossili marini, minerali lo indurranno a raccogliere da terra, quando passeggia, conchiglie, sassi, crani di uccellini, conchiglie che porta in studio e, talvolta, usa come matrici per i suoi lavori.
Il «sentimento organico» che Moore capta nei suoi simili, nelle piante e nei fossili, lo porteranno a creare un unicum in cui la vita si identifica con la natura.
Di notevole impatto, nel ’25, durante il viaggio in Italia – dove arriva con una borsa di studio —, l’incontro con Giotto («La sua pittura è la più grande opera di scultura che abbia trovato nello Stivale»), Masaccio e il tardo Michelangelo, Donatello, Giovanni Pisano. Cui si aggiungono, però, anche le avanguardie europee. Che non sposa, ma che recepisce e sintetizza. Forse qualche eco si manifesta qua e là, fra il 1930 e il 1940, con alcune «intrusioni» del subconscio surrealista in certi particolari dei suoi lavori.
Moore attraversa tutto un secolo e le sue rivoluzioni, osservando quasi con distacco quanto avviene attorno a lui. Con due sole eccezioni: la Prima guerra mondiale (soldato e istruttore) e la Seconda (ore e ore passate nei rifugi sotterranei durante i bombardamenti aerei su Londra) in cui sentimenti ed emozioni forti si concretizzeranno in centinaia di disegni (1941-1942), cui si aggiungono quelli delle miniere (1942).
È anche il tempo in cui Moore matura: intuizioni e scoperte sono fondamentali per la sua ricerca artistica. «Essere artista è credere nella vita. Un simile sentimento, così profondo, può essere definito religioso. In questo senso, un artista per vivere e creare non ha bisogno né di una Chiesa, né di un dogma». E nella natura trovava la più grande fonte di energia e di ispirazione.
Dai disegni nei rifugi sotterranei, passa – anni Cinquanta – ai grandi volumi, che convoglia su tre temi: madri e figli, figure sdraiate, interni e esterni. Nascono sculture imponenti, rese in forma essenziale («Meno è meglio»), nate per stare en plein air, magari immersi nel verde. Per confondersi e fondersi con la natura.