Corriere della Sera, 28 ottobre 2015
Non è vero che la colpa della Terza guerra mondiale (in corso) sia tutta dell’interventismo occidentale
Un’onda di pentimento per le guerre in Medio Oriente percorre l’Occidente. Perfino un leader come Blair, che pure fece dell’interventismo democratico il cuore della sua dottrina internazionale, sembra ora ritirarsi con tante scuse, ammettendo errori, colpe, omissioni, bugie, sottovalutazioni. Che senza dubbio ci furono, specialmente dopo l’invasione angloamericana dell’Iraq, provocando un danno incalcolabile alla causa occidentale. Ma che forse non consentono di concludere, alla maniera di Donald Trump, che il mondo sarebbe migliore con Saddam e Gheddafi ancora al potere.
Come spesso gli accade quando cerca di liberarsi del «fardello dell’uomo bianco», l’Occidente si dà anche colpe non sue. Per esempio: è una vulgata che non diventa più vera solo perché viene ripetuta ogni sera in tv (lo dicono spesso anche il nostro premier Renzi e il nostro ex premier Berlusconi) l’idea che sia stato l’intervento militare dell’Europa ad aprire la strada all’islamismo e al caos in Libia. Bisognerebbe infatti ricordare che da Tripoli a Bengasi era già in corso una sanguinosa guerra civile quando Francia e Gran Bretagna decisero di aiutare i ribelli anti Gheddafi. L’Europa non provocò la guerra, ma di fronte a un conflitto già esploso ai suoi confini aveva solo due scelte possibili: aiutare il dittatore o
aiutare i suoi nemici. Chi oggi critica quell’intervento avrebbe dunque preferito puntellare il tiranno con la forza delle armi?
L
a terza opzione in Libia, non fare niente, non era praticabile, perché ci stava già scaricando addosso caos, instabilità e profughi: esattamente come è accaduto dopo che noi occidentali ce ne siamo lavati le mani, in una seconda guerra civile.
L’alternativa del diavolo esce confermata dalla tragedia della Siria: lì l’Occidente ha scelto per anni di non intervenire (meglio: lo ha scelto Obama, l’unico che avrebbe potuto). È stato forse più fausto l’esito di quella guerra civile? Ci sono forse stati meno morti, meno profughi, meno terrorismo islamico perché ci siamo astenuti dall’azione? E chi può dire che cosa sarebbe diventata la Libia se avessimo scelto di comportarci come in Siria?
In realtà l’esperienza ci insegna che l’Occidente ha dovuto spesso pentirsi di essersi disimpegnato, o di non essersi impegnato abbastanza. Non a caso in Afghanistan Obama è stato costretto a restare, rinunciando alla sua ambizione di terminare il mandato senza più guerre in corso. Anzi, la lunga inazione gli suggerisce oggi addirittura di valutare l’invio di truppe in prima linea, tra l’Iraq e la Siria. I vuoti di potere prima o poi si riempiono sempre, e se li riempie Putin è un problema. D’altra parte gli unici due esempi di successo di un intervento militare occidentale, il Libano e l’ex Jugoslavia, dove i nostri soldati hanno veramente messo fine alla guerra e tuttora assicurano una pace seppure imperfetta, hanno richiesto un impegno molto lungo e dispendioso, che dura da decenni.
Spesso gli stessi che danno agli Stati Uniti e all’Europa tutte le colpe di ciò che non va nel mondo sono anche coloro che sventolano come una bandiera pacifista la terribile constatazione di papa Francesco, secondo il quale è in corso una «terza guerra mondiale». Ma se davvero c’è la terza guerra mondiale, qualcuno può pensare che l’Occidente se ne possa tener fuori, limitarsi a guardare, magari circondandosi di muri taglia fiamme e anti profughi per evitare che l’incendio ci lambisca?
La verità è che l’Occidente, con tutti gli errori che ha commesso, non è la causa di un conflitto che scaturisce da una vera e propria guerra civile interna all’Islam; ma non può disinteressarsene solo perché ne è la periferia. La presunzione di voler lasciare il mondo com’è, congelando la storia, solo perché così conviene al nostro quieto vivere, non è meno «imperialista» della presunzione di poterlo cambiare a piacimento, giocando alla guerra. Nella politica, come nella morale, non far niente può essere talvolta più pericoloso di far troppo.