il Messaggero, 27 ottobre 2015
In Italia, il giro d’affari di carni e salumi è 32 miliardi di euro, rappresenta il 20 per cento di tutta la nostra filiera alimentare
Senza carni e salumi, la vetrina all’Expo del made in Italy sarebbe stata quasi spenta. Stiamo parlando di un’eccellenza nazionale, che pesa in modo determinante nella forza del settore agroalimentare: un fatturato di 32 miliardi di euro tra carni avicole (10 miliardi), suine (12 miliardi) e bovine (10 miliardi), pari a quasi il 20 per cento dell’intera filiera del cibo (180 miliardi di euro). E stiamo parlando di una serie di prodotti che da soli valgono il 35 per cento dei 244 marchi dop (denominazione di origine protetta) e igp (indicazione geografica protetta) realizzati sull’intero territorio nazionale. Abbiamo fatto battaglie campali, mai cessate, nei corridoi dell’eurocrazia di Bruxelles per difendere l’autenticità sui mercati globali, dove spadroneggia la contraffazione, di prodotti come, per esempio, la bresaola della Valtellina, il cotechino di Modena, la mortadella di Bologna, il salame di S. Angelo e la salsiccia calabrese. E adesso bisogna fare i conti con l’allarme lanciato dall’Organizzazione mondiale della Sanità, attraverso l’autorevole voce dell’Agency for Research on Cancer (Iarc), che ha creato il panico nelle industrie del settore, dove lavorano, compreso l’indotto, 180mila persone, e nei nostri uffici dell’Istituto del commercio estero, visto che le esportazioni ammontano a 115.310 tonnellate di salumi (erano solo 62.000 nel Duemila) con ricavi all’estero per 1,1 miliardi di euro.
LA PECULIARITÀ ITALIANA
Di fronte alla portata dirompente dei rilievi sanitari, gli imprenditori, a cavallo di agricoltura e industria, hanno tirato fuori altre statistiche che pure vanno tenute presente sia per misurare il grado di innovazione della filiera sia per inquadrare, in casa nostra, i possibili rischi in materia di prevenzione sanitaria. Innanzitutto carni e salumi made in Italy hanno contenuti di sale e di grassi, i principali imputati nella creazione delle molecole zuccherine che possono produrre infiammazioni cancerogene nell’organismo, più bassi di tutti gli altri paesi europei e di gran parte dei concorrenti di oltre Oceano. Lo stesso discorso riguarda gli additivi chimici: anche qui, proprio per difendere la peculiarità italiana, sono stati introdotti metodi di trasformazione e di stagionatura che hanno recuperato le antiche tradizioni naturali.
QUANTA NE MANGIAMO
Poi c’è il versante dei consumi, la cui quantità è determinante per accertare la soglia del pericolo tumorale. Lo ha detto lo stesso Kurt Straif, capo del team dei ricercatori dell’Agency for Research on Cancer: «Quello che fa davvero la differenza, nella scala di misurazione dei rischi cancerogeni, è il livello dei consumi di carne rossa, che non deve essere alto». Ma questo già avviene in Italia. Le quantità indicate dallo studio timbrato dall’Organizzazione mondiale della Sanità, infatti, parlano di 100 grammi al giorno per la carne rossa e 50 grammi al giorno per quella trasformata per i salumi: esattamente la metà delle porzioni mangiate dagli italiani. Se spostiamo così il punto di osservazione dalla produzione al consumo, scopriamo che gli italiani hanno da tempo introdotto una sorta di prevenzione autoctona rispetto ai pericoli denunciati dagli scienziati dell’Iarc: la dieta mediterranea. Avete presente il bacon bruciacchiato, icona alla Andy Warhol del breakfast e in generale delle cattive abitudini alimentari dei popoli anglosassoni? Ne bastano 50 grammi, in pratica un paio di fettine, per aumentare del 18 per cento le possibilità di cancro al colon-retto, alla prostata e al pancreas. Bene: nella tavola di una famiglia italiana è molto raro trovare la pancetta con le uova per la prima colazione, mentre in America vi potete riempire la pancia di questo autentico concentrato di colesterolo anche dei caffè degli ospedali specializzati per gli interventi al cuore otturato dai grassi.
Senza lasciarsi troppo sorprendere dagli allarmi medici, gli italiani sono stati i protagonisti di una silenziosa ma efficacissima rivoluzione degli stili di vita, prima al supermercato e poi in tavola. Il risultato più clamoroso è stato ottenuto lo scorso anno, quando per la prima volta le statistiche hanno segnalato il sorpasso nel carrello della spesa. Gli acquisti di prodotti vegetali sono arrivati a una cifra di 99,5 euro pro-capite (il 23 per cento dell’intero paniere alimentare) rispetto ai 97 euro destinati agli acquisti di carne e salumi (22 per cento del paniere). Quanto alla tavola le porzioni di frutta e verdura sono ormai pari a 360 grammi al giorno, molto vicine dunque alla soglia di 400 grammi, indicata dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità come una quantità ideale per proteggere l’organismo della malattie cardio-circolatorie e anche dai rischi di tumori all’apparato digerente.
LA RISPOSTA DELL’INDUSTRIA
L’industria della carne e dei salumi si è dovuta dunque adeguare al cambiamento degli stili di vita, per non perdere il contatto con i consumatori. Le più importanti aziende del settore hanno costituito un consorzio, Carni sostenibili, che nella sua etichetta può sembrare un ossimoro, ma in realtà è un’astuta operazione di marketing per contrastare, una per una, le tesi dei nemici della carne e del relativo consumo. È vero, per esempio, che per produrre un chilo di carne servono 15.000 litri di acqua, ma nel caso degli allevamenti e della macellazione sul territorio nazionale si tratta per l’80 per cento di acqua piovana con zero sprechi. E per i consumatori più scettici, lo chef stellato Massimo Bottura ha firmato, su incarico del Consorzio Carni sostenibili, cinque ricette a base di carne con grassi ridotti al minimo. Tutte presentate con il marchio della sana dieta mediterranea, elisir naturale per la longevità italiana.