il Giornale, 27 ottobre 2015
Pinocchio, il burattino di Collodi visto da Papini, Pancrazi e Montanelli
Le molte, troppe, interpretazioni sono note. C’è chi ha letto Pinocchio come una parabola religiosa e dentro vi ha visto l’alter Christus, nato miracolosamente da un padre falegname, appeso all’albero e poi risorto, finito nel ventre della balena come Giona, e infine trasfiguratosi in un Uomo. C’è chi lo ha letto in chiave massonica, e nella storia iniziativa di Carlo Lorenzini in arte Collodi e in segreto Framassone, ha rivisto l’evoluzione spirituale dell’Individuo dalla nascita materiale alla rivelazione della maturità. C’è chi lo ha letto in prospettiva psicanalitica, e nella favola-sogno ha seguito il viaggio dell’Io verso il ritrovamento di sé, fra trasgressioni e nasi-fallici che si allungano alla vista della fatina. C’è chi ha provato la via esoterica (la favola iniziatica), chi il sentiero alchemico (l’automa che ritrova un’anima), chi la metafora dell’identità nazionale (il catalogo dei vizi e dei pregi dell’italianità), chi lo ha studiato nell’ottica del Bildungsroman perfetto. E chi semplicemente lo ha ascoltato per quello che è: una fiaba. Le vie più semplici sono quelle che portano più lontano. Infinito Pinocchio. E nella lunghissima strada percorsa dal capolavoro di Collodi, attraverso migliaia di edizioni, centinaia di traduzioni (precisamente 240, tra cui, appena pubblicata da Luni, quella in dialetto milanese di Alfredo Ferri), e decine di trasposizioni (dalla riscrittura di Tolstoj alla lettura parallela di Manganelli, dallo sceneggiato televisivo di Comencini alla versione animata di Walt Disney che nel 1940 ambienta un Pinocchio vestito da tirolese in un Paese che sembra l’Austria hitleriana fino al film di Benigni) c’è un pugno di toscanacci che, vuoi per affinità regionale vuoi per sensibilità artistica, sembrano averlo letto ancora meglio degli altri. Radunando le pagine in cui capitò loro di parlare del «pezzo di legno buono solo a riscaldare una pentola di fagioli» e che poi intagliato con sapienza da Carlo Collodi diventò il burattino più celebre del mondo, l’editore Elliot ha tirato fuori un libricino intitolato semplicemente Pinocchio (pagg. 48, euro 7,50; in libreria dal 5 novembre) i cui autori sono Indro Montanelli, Pietro Pancrazi, Giovanni Papini e, nel ruolo di intervistato di lusso, l’immortale Paolo Poli.
E se la storia del romanzo è nota – pubblicato a puntate sul Giornale per i bambini fra il 1881 e il 1883, uscì in volume alla fine dello stesso 1883 dall’editore Paggi di Firenze con uno strepitoso successo – meno conosciuti, perché dispersi in articoli o saggi quasi scomparsi, sono i ricordi dei Grandi di Toscana sulla loro personalissima lettura dell’infanzia. Curioso, ad esempio, è sapere che Giovanni Papini, nato a Firenze nel 1881, stesso anno della prima puntata di Pinocchio, si ricorda di come la madre – che non conosceva ancora la favola di Collodi – gli narrava, fanciullo, «una strana novella di cui m’è rimasto impresso il titolo, l’Omino di legno», in cui il protagonista di giorno viveva nella cavità di un albero e di notte usciva «per fare scherzi e tiri mancini»: una antica novella toscana nota a molti a quei tempi, «e io suppongo che anche la madre del Lorenzini l’avesse raccontata al suo figliolo quand’era piccino e che questi se ne fosse ricordato quando stava cercando un tema per un racconto da mandare al Giornale per i bambini» (ma, a proposito di fonti nascoste di Pinocchio, si potrebbe citare il curioso racconto ottocentesco di François Janet La bambola parlante, edito nel 1862, e tradotto oggi per la prima volta in italiano dalla stessa editrice Luni, la cui immagine del falegname che rimira sul proprio tavolo di lavoro la bambola appena costruita, è davvero molto molto evocativa...).
Invece Pietro Pancrazi, classe 1893, di Cortona, italianista insigne, in tarda età confessa di rileggere ogni anno il Pinocchio, cercando i segni di un’infanzia lontana, e sente ogni anno «di volergli più bene» perché le pagine del vecchio libro, che per lui è una squisita storia morale, «hanno ogni anno insegnamenti nuovi».
Mentre Indro Montanelli, nato (nel 1909) a non molti chilometri da Collodi e che visitò spesso il giardino «razionale» dei marchesi Garzoni Venturi dove visse il giovane Collodi (un parco «dove tutto è chiaro e dove anche la fantasia deve mettersi al passo con la geometria»), elogia il «toscanissimo metro del buon senso» sia di mastro Lorenzini, il quale, figlio di un cuoco e una domestica, crebbe in una villa di nobili e finì con scrivere un capolavoro della letteratura popolare, sia dell’umile artigiano Geppetto, il quale quando si mise a segare il famoso legno, «voleva certo violare le sacrosante leggi del logico e dell’umano; e invece non gli venne fuori che un ragazzo, un umanissimo ragazzo di legno che crebbe e si sviluppò come un ragazzo di carne». Sorte, commenta il vecchio Indro, «beffarda e malvagia».