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 2015  ottobre 27 Martedì calendario

Perché sto con Valentino

Io sto con Valentino, perché Valentino ha torto. Ha il torto di essere il più matto, quindi il più bravo di tutti e da troppo tempo. Sto con quel Peter Pan di 36 anni che sa volare a 350 chilometri all’ora a cavallo di una bici a motore. Sto con lui proprio perché ha fatto una “coglionata” come ha detto Arrigo Sacchi in dialetto romagnolo dimostrando di essere non più un personaggio da favola, ma un essere umano.
In un’altra galassia, in quel mondo parallelo dove ragazzini e uomini adulti si giocano la vita per soffiarsi l’uno con l’altro la traiettoria e le accelerazioni migliori in uscita dalla curva, il metro di giudizio che si applica a nostra figlia quando va a scuola in motorino o a me quando volavo con la Lambretta sui binari del tram a Milano, semplicemente non funziona. Le leggi della fisica e dunque le leggi della morale da poltrona non si applicano a uomini che, protetti da una tutina e da un casco, viaggiano a velocità superiori a quelle di un jet al decollo.
Chi invoca le leggi e le norme cavalleresche dello sport, ammesso che sia paragonabile il fallo da dietro su un attaccante di calcio lanciato verso la porta a una caduta a 300 km orari, preferisce dimenticare che trionfi e glorie sportive sono intessute di astuzie e irregolarità che il successo fa dimenticare e il tifo fa esaltare. Vincemmo un mondiale in Spagna nel 1982 grazie al martirio inflitto dal tremendo Claudio Gentile a quel Maradona che ne avrebbe vinto un altro segnando un gol di mano e ripetemmo l’impresa a Berlino 2006 con il balzo felino all’indietro di Materazzi per esaltare l’effetto della cornata di Zidane e togliere ai francesi il loro giocatore migliore.
Nessun replay, neppure le oltre 200 mila visioni in slow motion ripetute finora su You-Tube potranno mai chiarire definitivamente se sia stato il catalano Marc Márquez a provocare il marchigiano Valentino Rossi buttandoglisi addosso, se il casco abbia colpito la gamba, se il piede abbia scalciato la moto, se i due avessero un conto in sospeso da saldare. Forse neppure loro in quell’istante vissuto a una angolazione innaturale rispetto alla strada e alla gravità terrestre erano perfettamente coscienti di quello che si stavano facendo.
Ma anche chi abbia giocato al pallone all’oratorio con le brache rimboccate e le scarpe della domenica sa che commettere una scorrettezza grave e deliberata espone l’autore alla pronta retribuzione di un fallo ancora più duro e dunque dubito seriamente che un professionista delle acrobazie mortali compiute nei Gp di moto si voglia esporre alla vendetta degli amici e dei compagni di Márquez, secondo il principio poco evangelico del “sarà fatto a te ciò che hai fatto agli altri”. Più banalmente, applicando una regola non scritta che funziona in ogni sport e in ogni professione, Rossi sa di essere un Peter Pan con le prime rughe e sente che il suo lungo, meraviglioso volo è vicino alla fine.
Chi vince troppo non è mai simpatico a nessuno di coloro che sconfigge. Chi ha vinto tanto e sente di non essere più il capobranco cerca di rintuzzare l’aggressività dei leoni più giovani, come Márquez, che ha quattordici anni meno di Valentino, o come Lorenzo, che ne ha otto di meno, con l’astuzia, con i trucchi del mestiere, con la paura in gola di sapere che la tua corsa è prossima alla fine. Valentino Rossi, con la sua laurea “motoris causa”, con la sua storia triste di evasioni fiscali, con quella curva che potrebbe essere la sua ultima se dovesse rinunciare a partire in fondo con i resti del branco, è il dio che scende dal sellino per tornare fra gli umani pedone. Magari con una pedatina.