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 2015  ottobre 24 Sabato calendario

Totò, storia di un grande uomo che sapeva bene che in questo Paese «per essere riconosciuti qualcosa, bisogna morire»

Ci sono tormentoni diventati classici. Come le frasi «Signori si nasce, e io modestamente lo nacqui», «Ma mi faccia il piacere» e «Siamo uomini o caporali?» pronunciate da Totò. Ora la prima perentoria affermazione è diventata il titolo di un saggio biografico E io lo nacqui. Totò, o l’arte della commedia bassa (Bietti, pp. 368, euro 20) di Massimiliano Scuriatti, sceneggiatore e drammaturgo. Un lavoro (presentato oggi alle 18 a Bookcity presso la Triennale con Maurizio Nichetti, Raul Cremona, Rossana Carretto e Massimo Valli) accurato e poderoso, che scava in ogni dettaglio e procede per settori: il teatro e il primo cinema, quando Totò veniva definito lo “Sciarlò” italiano, la maschera di Totò nella cultura della commedia popolare, il processo creativo ed espressivo. In sintesi, 50 lavori teatrali e 97 film. Scrive Nichetti nella prefazione, sottolineandone l’eterna attualità: «...quanti onorevoli Trombetta sono stati infilzati da uno sguardo, da un lazzo, da un gesto di Totò. Non per cattiveria, solo per ribadire che “il re è nudo”, messaggio classico di ogni giullare di corte». Ne ricorda anche l’estrema versatilità, che, oltre il lato comico, lo ha portato a esternare pene d’amore con Malafemmina, e filosofeggiare sulla morte con ’A livella. Per concludere che aveva i nostri stessi problemi. Sostiene Nichetti che si tratta di piccole regole a cui si sono attenuti tutti i veri grandi comici entrati nella storia, e «Totò è uno di loro. Totò è nella Storia». Proprio così, e lui, perdinrindina, lo aveva predetto, immaginando il suo funerale, e ne parlava con Franca Faldini, l’ultima compagna. Le diceva: «Al mio funerale sarà bello, ci saranno parole, paroloni, elogi, mi scopriranno un grande attore: perché questo è un bellissimo paese, in cui però per essere riconosciuti qualcosa, bisogna morire». E infatti, com’è noto, il riconoscimento fu tardivo, prima ci fu il ludibrio dei film di serie B, sino all’incontro con Pier Paolo Pasolini per Uccellacci e uccellini (1966). La revisione critica seguì al galoppo, favorita purtroppo dalla morte di Totò, avvenuta un anno dopo (a 69 anni). Ed è in parallelo alle sue tristezze che Scuriatti compie la traversata nella vita d’attore del principe della risata, Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, questi in sequenza i suoi nomi di principe autentico quando venne riconosciuto dal padre naturale, ma all’inizio era soltanto Antonio Clemente, figlio di madre nubile, Anna Clemente, ragazzino napoletano di rione Sanità, secco, affamato, al quale avevano rotto il naso, rimasto storto: il look, marsina consunta e pantaloni ristretti, oggi icona, fu reso obbligatorio dal fatto che non poteva permettersi altri abiti. Una maschera, discendente direttamente da Pulcinella, che Scuriatti descrive attraverso il racconto del critico Sandro De Feo: la torsione del busto rispetto all’addome, e la testa in tutt’altra direzione rispetto al busto, e gli occhi che si torcevano nella direzione opposta rispetto al capo, e la bazza per conto suo rispetto alla bocca, e il pomo d’Adamo vorticosamente in giro, facendo correre anche la farfallina nera della cravatta. E pensare che la madre avrebbe voluto che si facesse prete. Proprio lui che avrebbe tanto amato le donne, e visse episodi di ripetute gelosie.