Il Messaggero, 24 ottobre 2015
Quei duecentoquarant’anni di carcere per il clan Ciarelli-Di Silvio. Quelli che si erano presi Latina
Un clan nato e cresciuto in città, specializzato in usura ed estorsioni, passato per le rapine, dotato di metodi intimidatori senza eguali. Anzi sì, i metodi di un’associazione mafiosa. La Corte d’Appello di Roma ha ampiamente confermato le condanne per il gruppo dei Ciarelli-Di Silvio – imparentato con il clan romano dei Casamonica – finito in carcere ad aprile del 2012 al termine di un’operazione della Polizia di Stato. La contestazione, per la prima volta nei confronti del gruppo di etnia Rom stanziale nel capoluogo pontino da decenni, era quella di associazione a delinquere aggravata dalle modalità mafiose. In primo grado – dopo un processo contraddistinto da ricusazioni e minacce ai giudici, avvocati che non si presentavano – arrivò la sentenza a 240 anni di carcere complessivi. I magistrati, accogliendo la tesi dell’accusa, avevano stabilito che quel gruppo aveva ottenuto il controllo della città. Andato avanti a lungo, fino a che era scoppiata – all’inizio del 2010 – la cosiddetta “guerra criminale”. Nel giro di 36 ore il ferimento di Carmine Ciarelli, ritenuto a capo del clan, quindi l’uccisione di Massimiliano Moro e Fabio “Bistecca” Buonamano. Da lì partirono le indagini sfociate nell’operazione “Caronte” di due anni dopo.
LA CONFERMA
Le condanne hanno superato i due secoli di carcere, ieri, con la sentenza emessa dalla III sezione della Corte d’appello. Rispetto a quella di primo grado lievi riduzioni di pena per Carmine Ciarelli, condannato a 20 anni e mezzo di reclusione (sei mesi in meno rispetto al primo grado), per Carmine Di Silvio (13 anni e 11 mesi a fronte di 17 anni e due mesi); per Vincenzo Falzarano (7 anni anziché 13) e per Ferdinando “Pupetto“Di Silvio (3 anni a fronte di 4). Condanna aumentata, invece, per Antonio Di Silvio (7 anni e 4 mesi e non più 6), mentre è stata confermata l’assoluzione già disposta in primo grado per Antonio “Sapuro” Di Silvio.
Nella lunga lista di reati, contestata a seconda delle posizioni, l’associazione a delinquere con l’aggravante del metodo mafioso, tentati omicidi, rapine, usura, minacce ed estorsione. Si doveva pagare, altrimenti si finiva nello sterco all’interno delle stalle che il gruppo Rom ha continuato a gestire per anni, alle porte della città. Gettati nel letame, picchiati, umiliati. Un gruppo capace di tutto, anche di saldarsi con la criminalità organizzata campana o calabrese per dare vita a quella che gli osservatori chiamano “quinta mafia”. Loro, i Ciarelli-Di Silvio, gli “zingari”, avevano un solo scopo: il monopolio del crimine a Latina.
C’erano capi che davano gli ordini, stabilivano le modalità operative, i tassi dei finanziamenti, persino l’acquisto di auto per ripagare i prestiti. Un ruolo definito, soprattutto nel recupero dei crediti e nella custodia delle armi, lo avevano le donne del clan che si occupavano anche di curare gli interessi del gruppo se gli uomini finivano in carcere. Ieri, per quattro di loro, condanne comprese tra due e quattro anni e otto mesi di reclusione.
LA NOVITÀ
Da un clan a un altro, anche se con l’operazione “Don’t touch” di due settimane fa non è contestata l’aggravante mafiosa. In carcere sono finiti, tra gli altri, l’imprenditore Gianluca Tuma e Costantino “Cha Cha” Di Silvio, appartenente alla famiglia Rom, insieme ad alcuni insospettabili, un poliziotto e due carabinieri, uno dei quali nel frattempo scarcerato. Non si erano sostituiti agli affari del clan, ma ne svolgevano di simili. L’accusa è di associazione a delinquere e dalle carte emerge la realtà di un’organizzazione senza scrupoli, con disponibilità di armi, un forte potere intimidatorio, affari che andavano dalla droga agli investimenti attraverso società “scatola” o affidate a prestanome. Significativa un’intercettazione nella quale Tuma dice: «Ci prendiamo il Lazio». Latina, del resto, ce l’avevano già.