Il Messaggero, 24 ottobre 2015
Adesso è il Mediterraneo che guida la classifica della crescita della zona euro. Storia di una rivinta economica sul Nord
Ricordate il 2011? Il contagio greco e lo spread alle stelle? Di lì a poco si sarebbe abbattuta sulla penisola iberica e sull’Italia la gelata dell’austerità, che avrebbe fatto precipitare la domanda interna. Ma già allora erano evidenti i primi sintomi dell’ampliarsi del divario di crescita tra il Nord Europa “virtuoso” (includendovi la Francia, protetta dall’ombrello tedesco), da un lato, e il Sud Europa finanziariamente esposto e poco competitivo, dall’altro.
Impietosa al riguardo è la classifica di variazione del Pil nel 2011: Germania +3,7%, Finlandia +2,6% Francia +2,1%, Italia +0,6%, Spagna -0,6%, Portogallo -1,8%. Lo scenario oggi, Grecia a parte che è un caso a sé, si è completamente capovolto. Infatti, è il Mediterraneo che adesso guida la classifica della crescita della zona euro. Queste di seguito sono le previsioni per il Pil 2016 (recentemente diffuse, rispettivamente, da Prometeia per i 4 Paesi maggiori e dal Fmi per Portogallo e Finlandia): Spagna +2,2%, Portogallo +1,5%, Italia +1,2% (ma il Governo italiano nella nota di aggiornamento al Def prevede un più robusto +1,6%), Germania +1,2%, Francia +1%, Finlandia +0,9%.
La Germania si sta letteralmente piantando, “vittima” del proprio stesso modello, considerato quasi invincibile ed imperniato sui grandi gruppi industriali dell’auto. Prometeia prevede che il Pil tedesco nel terzo trimestre 2015 possa frenare fino a +0,1% (contro il +0,4% previsto a titolo di confronto per l’Italia).
Mentre andrebbe incontro addirittura ad una crescita zero nel quarto trimestre. I tedeschi pensavano di poter crescere all’infinito solo con l’export, soprattutto verso i Paesi emergenti, e pretendevano di imporre questa strategia ritenuta vincente anche ai Paesi del Sud Europa. Invece sta accadendo che l’economia cinese ha rallentato in modo significativo e importa di meno, la Russia è in crisi e, come mercato, si è viepiù isolata ed indebolita a causa delle tensioni geo-politiche con l’Ucraina e del crollo del prezzo del petrolio, mentre il Brasile è in profonda recessione.
Lo scandalo Volkswagen, inoltre, ha inferto un colpo senza precedenti alla credibilità internazionale della grande industria tedesca e alla affidabilità della sua tecnologia. La crisi di VW fa paura ai tedeschi non solo sul piano delle ripercussioni economiche, sociali ed occupazionali ma anche finanziarie. Ciò a causa dei costi per il richiamo e l’adattamento delle auto non in regola con le emissioni, ma anche e forse di più per le cause miliardarie che i grandi investitori mondiali starebbero intentando contro la casa automobilistica tedesca: cause che potrebbero far lievitare le perdite del colosso di Wolfsburg ben oltre le pur rilevanti riserve finanziarie già appostate in bilancio a scopo cautelativo e rendere quindi necessaria, al limite, una quasi-nazionalizzazione della Volkswagen.
Sarebbe un durissimo colpo per un Paese che con la sua forza economica e politica ha sempre influenzato l’orientamento di Bruxelles anche contro gli aiuti di Stato, usando spesso questo tipo di clava contro gli altri Paesi. Si aggiungano a tutto ciò gli scandali in cui è rimasta coinvolta Deutsche Bank e le relative multe miliardarie che l’istituto tedesco ha dovuto pagare (come nel caso dei tassi manipolati), fino al clamoroso errore di una settimana fa quando un trader della banca ha accreditato «per errore» 6 miliardi di euro a un cliente. Più in generale, il sistema bancario della Germania non è affatto in buona salute e lo stato reale dei bilanci delle banche locali tedesche resta un enigma a cui la vigilanza europea non ha sinora potuto, per l’opposizione di Berlino stessa, avere accesso.
L’immagine granitica della Germania perfetta, competitiva, efficiente e vincente sta dunque vacillando in modo pauroso, mentre la stessa situazione politica interna, anche a causa del problema degli immigrati e dei profughi, registra tensioni. Nonostante tutti i vantaggi di cui la Germania ha potuto godere durante la recente crisi dell’euro, restando una sorta di Paese “rifugio”, la crescita economica tedesca negli ultimi anni non è stata un granché ed ora rischia addirittura di incepparsi.
Della Francia c’è poco da dire. Non è mai stata un modello, a differenza della Germania. Si potrebbe affermare che è un non-modello. In questi anni Parigi non ha assolutamente messo a posto i conti pubblici né ha fatto le riforme. Secondo Prometeia il Pil francese crescerà nel 2016 meno di quello italiano, ma già negli ultimi tre trimestri del 2015 l’Italia ha sorpassato la Francia. E la Finlandia? Un tempo i falchi commissari finlandesi impartivano lezioni di rigore finanziario e di crescita ai Paesi mediterranei. È bastato il declino inesorabile della Nokia, unitamente alla crisi della vicina Russia, per mettere Helsinki in ginocchio.
Dunque, c’era una volta il Nord. Adesso invece è l’Europa dei Paesi mediterranei a correre. Il Pil spagnolo è tra i più dinamici, non solo in Europa (+3,1% quest’anno, +2,2% il prossimo), anche se aiutato da tempi di rientro del disavanzo pubblico molto generosi che Bruxelles ha ripetutamente accordato a Madrid. Il piccolo Portogallo è uscito dalla crisi facendo duri sacrifici ed ora anche il suo Pil viaggia a ritmi superiori a quelli tedeschi. Tra i tre Paesi mediterranei che stanno riemergendo dagli abissi dell’austerità l’Italia presenta tuttavia forse il profilo più convincente, pur crescendo di meno degli altri due. Infatti il nostro Paese è in avanzo statale primario sin dal 2011 mentre la Spagna non lo sarà nemmeno nel 2016. La crescita italiana appare più convincente anche se meno intensa di quella spagnola perché si sta realizzando gradino dopo gradino senza strappi e con conti pubblici più in ordine. Inoltre, le riforme realizzate dal governo Renzi stanno avendo notevoli apprezzamenti anche all’estero. Al punto che persino il quotidiano tedesco Die Welt nei giorni scorsi ha parlato di un modello Italia in Europa. E mentre l’immagine dell’auto tedesca sprofonda, la Ferrari trionfa in Borsa a New York.
Dalla nuova vivacità dei Paesi mediterranei Bruxelles e Berlino tuttavia dovrebbero umilmente trarre soprattutto una lezione per il futuro dell’Europa stessa. L’Eurozona non può crescere soltanto con l’export ad imitazione (del tutto irrealistica ed ora nemmeno più così redditizia) della Germania. L’Eurozona potrà crescere di più solo se riattiverà una domanda interna decente, bilanciando meglio rigore e sviluppo, puntando di più sugli investimenti (in infrastrutture, ricerca e tecnoscienza) e riempiendo di maggiori risorse l’ancor esangue Piano Juncker. Italia, Spagna e Portogallo, avendo dei margini di domanda interna da recuperare dopo le costrizioni artificiali dell’austerità e i suoi danni collaterali, stanno dimostrando che, una volta attuate le riforme, è la ripresa del mercato domestico e dell’occupazione l’unica che può davvero lanciare il PIL come una fionda. Una regola che vale anche per la Germania e per l’Eurozona nel suo complesso. È tempo che a Berlino e Bruxelles finalmente lo capiscano.