il Fatto Quotidiano , 24 ottobre 2015
La solitudine di Michele Serra ai tempi della tecnologia
Quando la sua auto si fermò sull’A1 all’altezza di Roncobilaccio, Michele Serra era solo alla guida (una Dyane 6, elegante risposta ai macchinoni che omologavano le menti a furia di spot pacchianissimi, non ci saliva nessuno). Scientemente non aveva messo benzina in nessuno dei sei distributori precedenti: fuggiva le file di gente vestita male, con pessima musica negli stereo (Dio santo, ma lo sapete che è esistito Guccini?), con dei brutti orologi multifunzione, è troppo chiedere due lancette e un cinturino di pelle come nelle foto dei partigiani? Ciò che rendeva impegnativa per Michele la selezione del distributore giusto costringendolo a rimandare fino a quello successivo finché non si fermava sulla corsia di emergenza (“corsia”, perché questo fonema ospedaliero tirasfiga?) non era la fila di per sé: lui anzi, le file, se ordinate, coi più bassi davanti e i più altini dietro, le considerava una reliquia garbata di un’Italia che non c’è più, quell’Italia povera ma civile dei militanti che attendevano composti, né si accavallavano né sbraitavano per farsi sentire.
No, ciò che gli impediva di fermarsi a fare benzina era il dover constatare che la gente in autostrada era molta. Questa eccessiva numericità di utenti lo faceva riflettere sulla terribile massificazione dei costumi di cui l’A1 era il simbolo. L’A1 aveva ucciso le identità. Apparentemente comodo, in realtà quel nastro d’asfalto era la pietra tombale della Grande Storia d’Italia. Quando spostarsi per la maggior parte degli italiani voleva dire attrezzare un carro o sellare il cavallo gettandosi il tabarro intorno alle spalle per raggiungere sotto la pioggia locande anguste ma molto più affascinanti di un autogrill, la gente era più vera, le tradizioni locali non andavano perse, i gusti non erano omologati. A voce, naturalmente. Perché Michele aveva un conto aperto con la tecnologia. Già il frigorifero non lo aveva mai convinto, la conservazione del cibo induceva all’inerzia, nessuno sforzo per procacciarsi altro cibo. E diffidava della filodiffusione, così subdola, presenza fintamente discreta nelle case della gente cui imponeva sottilmente musica scelta da menti sconosciute. Anche la stereofonia lo aveva lasciato perplesso: quel suddividere le voci in canali differenziati non era forse un tentativo di spaccare la compattezza delle canzoni di lotta, così potenti nella loro coralità naturalmente monofonica? Non era certo un caso se si era poi passati alla quadrifonia e chissà a quali altre future suddivisioni, fino alla polverizzazione capillare del potenziale interpretativo e politico.
Il walkman poi era la dimostrazione più evidente del teorema. Una sola musica per ogni individuo. L’isolamento totale pareva raggiunto, chi avrebbe più cantato in coro equo e solidale? L’Italia si avviava a diventare una massificazione della solitudine. Ma il peggio doveva ancora venire con i cellulari e i cosiddetti social. Mentre aspettava da solo nel buio il carro attrezzi, Michele rifletteva e prendeva appunti sulla devastazione barbarica dei rapporti umani rappresentata dai telefonini, strumento del diavolo. L’uomo egoico del XXI secolo aveva un cellulare in mano. Ce l’aveva anche lui quando aveva chiamato il carro attrezzi, e a casa altri due. Ma per lui era diverso, lui era consapevole. E non ci aveva messo nessuna orribile, volgare custodia.