ItaliaOggi, 24 ottobre 2015
Paolo Mieli e il problema della memoria condivisa, quella che converge pacificamente su alcuni dati di fatto anche se per orientamento culturale e politico è diversa
La storia piegata al tornaconto politico, la memoria ridotta ad attrezzo da kit elettorale, a costo dell’avallare il falso storico, di costruirlo, o di dare la stura al peggior complottismo. Paolo Mieli ha scritto un libro, L’arma della memoria (Rizzoli), contro il più insano dei vizi italiani dell’ultimo trentennio e per richiamare a rischi che corriamo se il giudizio sul passato viene derubricato a chiacchiera da bar.
Romano, classe 1949, dopo una lunga carriera nell’informazione, da L’Espresso alla direzione de La Stampa e del Corriere, Mieli da anni si dedica alla storia, che è la materia della sua formazione, essendo stato allievo di Rosario Romeo e Renzo De Felice, quest’ultimo avversato da tanti per le sue analisi controcorrente sul fascismo.
Domanda. Mieli, prima di arrivare all’Italia, l’attualità impone che si parli di Israele: la recente affermazione del premier Bibi Netanyahu su Hitler che si lascia convincere a sterminare gli ebrei dal Gran Mufti di Gerusalemme, sa molto di uso politico della memoria, in questo caso in funzione antiaraba.
Risposta. Il premier israeliano non ha detto cose completamente fuori dalla realtà, solo che, se è vero quello che riportano i giornali, le ha dette male, un’autentica stupidaggine.
D. Ovvero?
R. Emerse già nel processo ad Adolf Eichmann
D. il gerarca nazista sfuggito a Norimberga, che gli Israeliani andarono a riprendersi in Argentina nel 1960.
R. Lui. Nel processo emerse che lo stesso Eichmann e altri nazisti si erano recati in Palestina e che c’erano stati incontri con i sionisti, per capire se si potevano espellere gli Ebrei dal Reich e mandarli laggiù. I sionisti, essendo fautori di uno Stato di Israele, erano d’altra parte molto polemici con gli ebrei che rimanevano in Germania.
D. C’era stata anche l’ipotesi di inviarli tutti in Madagascar e il Gran Mufti non sarà stato contento all’idea di averli in Palestina.
R. Era infatti violentemente contrario. Ma quando incontrò Hitler a Berlino, il 28 novembre del 1941, la persecuzione degli Ebrei era già abbondantemente iniziata e il Fuhrer non aveva bisogno certo di farsi consigliare da lui.
D. Veniamo all’Italia. Domenica Grillo ha chiuso il raduno del M5s a Imola dicendo che l’America è dalla parte sbagliata della storia. La storia piace tantissimo ai nostri politici: dal Garibaldi usato da social-comunisti nel 1948, al capo indiano Geronimo, utilizzato nei manifesti della Lega.
R. E questo è un problema. Perché l’uso politico della storia, per far tornare i propri conti, per aver ragione sempre, è dannoso, spregiudicato, immorale, anche quando fosse fatto a fin di bene. E spinge i cittadini a pensare che la storia non sia niente di scientifico, che la si possa tirare dove ci pare.
D. Meglio che i politici lascino stare la storia.
R. Assolutamente sì. La lascino agli storici, i quali hanno le proprie tendenze e si confronteranno, duelleranno, ma con regole di ingaggio precise, e sempre con un’attenzione al dettaglio, senza sovvertire dati di fatto. Anche se gli studiosi magari possono lasciarsi andare a paragoni arditi, intendiamoci.
D. Infatti, nella sua introduzione, cita Gennaro Sasso, che ha sostenuto che, dopo quella del fascismo, l’Italia è stata costretta a subire una “seconda sconfitta”, con il trionfo della Dc alle elezioni del 18 aprile 1948.
R. E quello che definisco il “ricordo a tesi”, vale a dire si pensa d’essere esentati dal fornire prove storiograficamente inoppugnabili delle “sensazioni” trattenute da un passato che abbiamo vissuto in prima persona. Lui scrive che, nel 1922, «c’era la paura dei sovversivi», così come nel 1948 «quella del comunismo sovietico», e che la Dc avrebbe dato vita a «un sistema di potere contraddistinto dal clientelismo, dalla corruzione, dai patti segreti, da un sistema che ha consegnato l’Italia al peggio: ha saccheggiato Roma, depredato lo Stato, lo ha contaminato con pezzi di malavita».
D. Un po’ troppo, in effetti. Lei, oltre al vizio dei politici di giocare con la storia, mette sulla graticola anche quello dei magistrati.
R. È l’arma suprema, diffusasi nell’ultimo ventennio, quella di trasferire in un’aula di tribunale casi sui quali neanche gli storici di professione sono riusciti a fare luce in modo definitivo.
D. Una storiografia delle toghe
R. Anche dei pentiti e dei giornalisti, però. Prenda l’atto di accusa dei magistrati di Palermo contro Giulio Andreotti nel 1995: è stato pubblicato in un volume dall’ambizioso titolo La vera storia d’Italia e il sottotitolo Giancarlo Caselli e i suoi sostituti ricostruiscono gli ultimi vent’anni di storia italiana.
D. La “vera” storia d’Italia, per via giudiziaria.
R. Già, ma a opera di magistrati della sola accusa che, senza contraddittorio, «ricostruiscono gli ultimi vent’anni di storia italiana». E poco importa se, chi leggerà quel libro oggi, potrebbe non sapere che la sentenza definitiva di quel processo, per metà ha assolto Andreotti e per l’altra metà ha considerato prescritti i reati imputatigli.
D. Lei cita anche il caso della scomparsa del matematico Ettore Majorana, riaperto nel 2011, e quello del bandito Salvatore Giuliano, riesaminato nel 2010.
R. Clamoroso, quest’ultimo, a opera del procuratore aggiunto Antonio Ingroia. Anche in quel caso, se n’è fatto un libro.
D. Ricordiamolo.
R. I magistrati ordinarono la riesumazione del cadavere di Giuliano, nel sospetto che, come scrisse Micromega, «nella tomba fosse sepolto un sosia di Giuliano, il quale, messo in salvo dalla Cia, avrebbe trovato rifugio in America vivendo sotto copertura e lavorando per il Pentagono con il nome di Joseph Altamura».
D. Un precedente della trattativa Stato-mafia.
R. Precisamente, «un’operazione delicatissima», si scrisse, «gestita dall’anello di Andreotti, al tempo sottosegretario».
D. «Tutto torna» (Pascal).
R. Ma non è l’unica volta che Ingroia si è applicato alla «riscrittura della storia». Quarant’anni dopo il sequestro e il probabile omicidio di Mauro De Mauro, lo stesso magistrato ha riaperto il caso, accusando Totò Riina di esserne stato l’artefice. Ne è scaturita una lunga istruttoria e dibattimento, al termine dei quali il magistrato non è riuscito a ben identificare il possibile movente del delitto.
D. E Riina?
R. Ha potuto conquistare la medaglia dell’assoluzione, grazie questo uso improprio della memoria.
D. Ci si mettono pure i magistrati in pensione, come Ferdinando Imposimato.
R. Che nel 2013 ottenne un discreto successo editoriale col suo libro che forniva le prove delle connivenze fra Br e servizi deviati per l’uccisione di Aldo Moro.
D. Si rivolse coerentemente anche alla Procura, ottenendo che si riaprisse l’inchiesta.
R. Sì, ma proprio nel processo si scoprì che tutto quel racconto, che coinvolgeva Gladio e Francesco Cossiga, anche qui Andreotti, era stato partorito dalla mente di un ex brigadiere della Finanza, condannato per falso. Ma il libro è ancora in vendita.
D. Il complottismo, alimentato enormemente dal web, ci seduce. C’è un parlamentare grillino che ritiene che lo sbarco sulla Luna non sia mai avvenuto.
R. Certo, insieme alle scie chimiche e il Bilderberg: ne ho scritto di recente anche sul Corriere. I complotti ce le portiamo dietro dalla Rivoluzione francese, quando De Maistre e il pensiero reazionario cattolico videro in quell’evento la grande cospirazione di massoneria e Rosacroce. Da lì in poi, ogni grande passaggio della storia, avrà il suo risvolto cospirativo. Dall’uccisione di Lincoln, alla Rivoluzione di Ottobre, all’assassinio di Francesco Ferdinando a Sarajevo.
D. Oggi si incolpa la Rete, ma mi ricordo teorie incredibili a pochi giorni dall’11 settembre: George W. Bush che, dopo l’attacco, scendeva dall’Air Force One con, sottobraccio, un libro sulla Guerra civile americana; oppure Bin Laden che, nel video di rivendicazione dall’Afghanistan, aveva al polso lo stesso orologio visto a Roma, in quei giorni, all’ex-presidente Bill Clinton. Linguaggio in codice al quarzo.
R. È tutto frutto di una visione semplificata. Perché è più facile notare una cosa del genere farne discendere un complotto, si offre una versione seducente, ma le teorie dei complotti hanno un grosso limite.
D. Quale?
R. Negli ultimi 100 anni, non hanno mai, dico mai, sovvertito una sola verità storica. Non che non esistano complotti e congiure, ovviamente, ma in genere, in pochi anni, si disvelano, per l’acqua che hanno portato al mulino di chi li abbia orditi o perché i danneggiati li denunciano.
D. C’è sempre più bisogno di una memoria condivisa.
R. Sì, perché avendo in tasca un pc con gli odierni smartphone, si atrofizza la memoria di tipo scolastico e si tende anche non selezionare più. Si crede di sapere e non si sa, si abbocca alle false credenze. Memoria condivisa non significa memoria «unica», ma che la mia e la sua memoria, che possono essere diverse, per orientamento culturale e politico, convergono pacificamente su alcuni dati di fatto.
D. La mancanza di una memoria condivisa, per esempio, sulla guerra civile, ha portato qualche guaio.
R. Non solo, pensi anche al ventennio berlusconiano. Già l’uso della parola “ventennio” denota un accostamento, tutto politico, a quello mussoliniano, ma i conti non tornano in partenza, in quanto il Cavaliere ha governato nove anni su 20: negli altri anni lo ha fatto la sinistra, o ci sono stati governi tecnici, quelli di Lamberto Dini e Mario Monti, che furono sostanzialmente avversi a Berlusconi. Insomma è come se nel Ventennio, quello vero, avessero governato Antonio Gramsci, Filippo Turati e Leonida Bissolati.
D. Su Resistenza e Salò, si è visto e letto di tutto.
R. Si scrisse anche che Giampaolo Pansa desse alle stampe Il sangue dei vinti per sdoganare Gianfranco Fini. Figuriamoci, uno come Pansa, che viene da una famiglia partigiana, a fare il revisionista per la destra. Dieci anni dopo, oltretutto, Fini è quasi finito a sinistra e chi aveva scritto quelle stupidaggini non le ha mai corrette.
D. C’è stato il tentativo di costruire una memoria condivisa sulla guerra civile o anche sulle Foibe, da parte politici e studiosi, di sensibilità culturali molto diverse: penso a Luciano Violante, a Claudio Pavone, a Giano Accame, al suo maestro, De Felice.
R. Esatto, eppure Violante è rimasto un uomo di sinistra, così come Pavone un partigiano: memoria condivisa significa riconoscere delle verità nel campo opposto al proprio.