il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2015
Confessioni di un’italiana. In quest’intervista Monica Bellucci parla di tutto: dalla vita di provincia a Selci Lama fino all’ultimo film con Kusturica, passando per tutte volte che si è presa una porta in faccia
Prima dei film con Terry Gilliam, delle statue di cera nei musei parigini e degli 007 di Sam Mendes c’era solo Selci Lama, frazione di San Giustino. L’Umbria di confine in cui Pasquale Bellucci, autotrasportare e sua moglie Brunella, casalinga, scattavano Polaroid a Monica senza immaginare che il protendersi dei fotografi: “Sorridi, girati verso di noi, ancora una” e i lampi dei flash avrebbero riguardato un domani la loro unica figlia: “I miei genitori si erano sposati da giovani ed erano molto larghi di vedute ‘Se ti capita di mettere al mondo una creatura troppo presto, non preoccuparti e non ti vergognare, te la accudiamo noi’”. I figli: “Due bambine” sono arrivati molto tempo dopo, insieme alla moltiplicazione degli sguardi che da adolescente, nella piazza principale del paese, la squadravano da cima a fondo: “Li evitavo trovando strade secondarie per far ritorno a casa”. Negli anni che – con un persistente sospetto anagrafico e a una prima sommaria indagine – dovrebbero essere cinquantuno, Monica Bellucci ha imparato a difendersi. A posare. A giocare. A soffrire: “Mi spiega che si ottiene senza sofferenza?”. A recitare da attrice in trasferta canadese e da madre tormentata, come in Ville-Marie di Guy Édoin: “E a sbagliare perché accade di fare errori”. O a chiedere scusa “che è la cosa più difficile che esista e forse anche la più liberatoria”.
In una saletta ai bordi della Festa del cinema di Roma, quando non è più mattina ma non è ancora pomeriggio, Bellucci si siede, beve acqua e appare più leggera del personaggio interpretato in Ville-Marie. “Nel film si dice che non si è mai veramente pronti ad affrontare un dramma o un problema. Vale per il cinema e vale anche nella realtà”.
Non si è mai pronti a fare cosa?
Non si è mai pronti a essere disposti a tutto e a dimostrare di sapere fare tante cose. Una sola, nella vita, non ti viene chiesta mai.
E per quali altre ragioni non si è pronti?
Non si è mai pronti perché non si è mai pronti alla vita. La vita ti coglie di sorpresa. La vita non è mai un lungo fiume tranquillo, come in quel vecchio, delizioso film di Étienne Chatiliez.
In quel film c’erano figli scambiati, famiglie agli antipodi e diversità risolte in commedia.
C’erano tutti gli elementi della vita. Il cadere, il rialzarsi, il superare gli ostacoli. Si cade sempre, tutto sta a come si ci riesce a rimettere in piedi.
Da ragazza si è sentita inadeguata?
Più che inadeguata, ignorante. Molto ignorante.
Ignorante?
Avevo una gran voglia di farcela e un fortissimo desiderio di mostrarmi all’altezza, ma facevo anche i conti con l’assoluta inesperienza e la non conoscenza – l’ignoranza proprio, non saprei dirlo meglio – dei meccanismi del cinema.
E come ha fatto a colmare l’ignoranza?
Ce l’ho fatta con la passione. Sembra una risposta confezionata, ma le assicuro che è sincera. Per me il motore delle cose non è stata la conoscenza, ma la passione. Con la passione puoi realizzare i sogni, persino imparare un mestiere.
È diventata attrice.
Le cose si apprendono, ma la matrice non si impara né si tramanda. O c’è o non c’è.
Lei aveva la matrice?
Ce l’abbiamo tutti, ognuno a modo suo. Io l’ho sviluppata impegnandomi in un lavoro in cui credevo. L’idea di poter salire sulla giostra, la sola idea di fare il cinema, era uno stimolo molto eccitante. La mia recitazione di oggi non equivale a quella degli inizi. Lentamente impari a capire, a orientarti, a spostare i limiti, a spingerti sempre più lontano. Recitare è una ricerca personale.
Lei si conosce?
No, non mi conosco. Comincio a conoscermi piano piano. Oggi ho 51 anni e rispetto a quando ne avevo 20, mi conosco ovviamente un po’ di più. Conoscersi è un lavoro molto interessante, ma anche pericoloso. Andare alla ricerca di sé può essere doloroso.
Cos’altro è pericoloso?
Non avere sensi di colpa. Ho conosciuto persone che non ne provavano. Mettevano paura. Il senso di colpa è ciò che ci uccide, ma che al tempo stesso ci fa belli. Ci aiuta a confrontarci con le responsabilità. Ad assumercele. A dare peso alle nostre parole e ai nostri gesti.
In Ville-Marie interpreta un doppio ruolo. L’attrice degli anni 40, celebrata e insoddisfatta e la madre contemporanea che nasconde al figlio un segreto del passato.
Sophie è una donna che cerca se stessa e si protegge dalle proprie debolezze e dalla realtà recitando. Si veste del ruolo di attrice e lo trasforma in maschera, in schermo per difendersi dagli altri, in armatura per resistere alle domande e alla curiosità del figlio. Non è la madre che vorrebbe essere e per diventarlo deve arrivare a spogliarsi, a togliersi le bardature, a mettersi a nudo.
Le è capitato spesso?
Per forza. Se non ti metti in gioco resti fuori, anche da te stessa. Nella vita ho cercato di capire prima di tutto il resto che persona fossi. Ci sono voluti anni. Il cinema è tutta un’altra storia. Una storia diversa.
In Ville-Marie l’attrice Sophie, quando torna nel mondo reale soffre.
Come le dicevo prima, non c’è possibilità di riuscita senza sofferenza: se qualcuno ha un altro modo, me lo dica. In scena soffro, ma invece di morire e abbandonarmi trovo per la prima volta la forza di capire quello che è davvero importante. L’essenza delle cose e dei rapporti umani. In Ville-Marie, Sophie ritrova la sua anima, si salva e prima di salvarsi, come è inevitabile, va a fondo. Il fondo non ti lascia alternative. Quando lo tocchi, o rimani lì e muori o trovi la forza di risalire.
Lei è arrivata al cinema internazionale partendo dalla provincia. Selci Lama era un posto da cui fuggire o una culla protetta in cui crescere felici?
Io penso sia stata entrambe le cose. La provincia mi ha protetta, ma a un certo punto ho avuto bisogno di uscire fuori e andare via.
Le ha fatto bene?
Mi ha fatto bene. Da ragazza conducevo una vita felice, ma abitudinaria. I parenti, le cugine, gli zii, la scuola, le feste comandate. Il divano di casa su cui sdraiarmi con mia madre e con mio padre e vedere anche due film di seguito.
Se li ricorda?
Ho mangiato tanto cinema, italiano e non. Il primo film che vidi, credo, fu La stanza del Vescovo di Dino Risi. Quello che mi colpì di più, La Veritè di Clouzot con una Brigitte Bardot pazzesca al centro della scena.
Vita tranquilla diceva.
Vita un po’ familiare e un po’ provinciale, come è poi l’Italia che è tutta una provincia, Roma e Milano comprese. Qui il soffio bonario, la tavola imbandita e la riunione allargata ai parenti più lontani sono abitudini che non si sono perse.
Perché lasciò l’Umbria?
Perché avevo bisogno di volare altrove, fare esperienze, provare a mantenermi con le mie forze. Non c’è un giudizio di merito, la provincia è bellissima, è solo che io sono fatta così e a quell’epoca avevo bisogno di mettermi alla prova.
Prima del cinema vennero le sfilate.
Girai l’Europa da giovanissima tentando di creare contatti con il mondo della moda. Ho sempre fatto le mie scelte assecondando il cuore. Adoravo le fotografie fin da bambina e quando andai a Londra o a Parigi, sapevo già benissimo chi fossero Helmut Newton, Richard Avedon o Bruce Weber. Avevo un amore un po’ ingenuo per l’estetica.
Un fotografo, Juan Carlos Basso, a vent’anni lo sposò davvero.
Sì e la storia durò sei mesi. Nella vita ho deciso di andare in un senso o nell’altro, ma mi sono fatta sempre dettare le scelte dagli impulsi. Se una cosa la sentivo, la facevo. Con i fotografi la storia è stata strana. Li ammiravo, ma come sia arrivata a lavorare con loro proprio non lo so. Sa com’è, a volte vuoi a tal punto certe cose che le cose come per magia accadono davvero e vengono verso di te. Ho avuto anche fortuna, è chiaro. Tanta fortuna.
Per primo la chiamò a recitare Dino Risi, nel ‘90. La fiction si intitolava Vita coi figli.
Non conoscevo nessuno e non sapevo niente. Mi trovai catapultata sul set solo perché qualcuno mi aveva visto per caso e scelta tra mille ritratti di modelle. La stessa cosa mi accadde per il successivo Dracula di Bram Stoker firmato da Francis Ford Coppola. Un’apparizione effimera, perché parlare di ruolo sarebbe disonesto.
Poi interpretò La Riffa. Un film di Francesco Laudadio in cui il suo personaggio per ovviare a un disastro finanziario mette se stessa in palio. Frase di lancio: “Aveva perso tutto, tranne il suo corpo”.
Me la ricordo. Ma per certe frasi a effetto non avevo responsabilità. Erano cose che andavano al di là della mia volontà. Forse il dramma è stato diventare star prima di diventare attrice.
È accaduto?
È accaduto. È successo qualcosa che non ho potuto controllare. Sul set de La riffa ad esempio ero alla prima vera prova da protagonista e mi feci doppiare per inesperienza. La direttrice del doppiaggio sosteneva che potessi benissimo farcela da sola, ma il regista non ne volle sapere e io sbagliando non mi imposi. Sa a cosa penso ricordando quell’episodio?
A cosa, signora Bellucci?
Che nella vita devi prendere qualche porta in faccia. Le prendo ancora adesso. Se non ci sbatti il muso, come fai a goderti il momento in cui invece le cose iniziano a girare per il verso giusto? Dalle porte in faccia si impara tanto e forse a volte è l’unico modo per fare i conti con la realtà.
All’inizio c’era diffidenza e neanche l’ombra del rispetto che le tributano oggi.
Leggevo certe stroncature e certi articoli così cattivi che mi domandavo sempre: “Ma se sono così scarsa, perché sprecano tante pagine per dirlo?”.
I percorsi sono strani. Uno dei suoi primi fidanzati, Nicola Farron, attore lanciatissimo tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, oggi fatica a lavorare.
Recitare è un salto nel buio e l’attore fa un mestiere tra i più incerti e i più violenti che esistano. È una guerra con te stesso, una sfida con il tuo corpo. Ho sempre saputo che sarebbe potuta anche andarmi male.
Vive il suo mestiere come una guerra?
No, lo vivo come un piacere. Però recitare è oggettivamente una lotta in cui se perdi, perdi soltanto tu. Lei scrive e può nascondersi dietro a una penna. Il musicista può farlo con il suo strumento e mettere una distanza tra sé e il mondo. L’attore non può. È come un ballerino. Non c’è rete, non c’è filtro, non c’è distanza possibile.
Proprio come in Ville-Marie, interpretava un’attrice, Luisa Ferida, anche in Sangue pazzo di Marco Tullio Giordana.
Mi fa piacere che ricordi quel ruolo. L’esperienza fu gratificante. Con Giordana, un regista che stimo profondamente, mi trovai benissimo.
Registi e registe d’Italia. Lei ha recitato per uomini e donne.
Ho lavorato con Maria Sole Tognazzi e con Alice Rohrwacher, due ragazze delicate e profonde.
Due termini apparentemente in contraddizione?
Per niente. Per risultare profondi non c’è nessun bisogno di essere crudi e violenti.
Ne I Mitici-colpo gobbo a Milano dei fratelli Vanzina si era più immediati che delicati. Lei era Deborah. Anzi, come diceva Ricky Memphis, uno dei suoi compagni d’avventura: “Debborah con l’acca”. Ricorda?
Per chi mi ha preso? Certo che mi ricordo e le devo dire quell’interpretazione che oggi sembra così facile, per me non fu affatto semplice. Dovevo parlare con la calata umbro-marchigiana, un dialetto diverso da quello che avevo conosciuto da ragazzina. Per pronunciare un marchigiano credibile ingaggiai un coach. Ore di lezione: “Senti lo devi dire con la d, ha capito? Provi” e io, ubbidiente: “Quindi devo dire Sendi?”.
Qualche anno fa disse che le sua case si chiamavano Alitalia e AirFrance. Continua a viaggiare senza sosta?
Sono scesa dalla scaletta dell’aereo e mi sono data una calmata. Gli ultimi 10 anni sono stati più tranquilli dei precedenti. Ho allevato le mie figlie, sono stata in un altro mondo, ho pensato meno alla mia veste pubblica.
Con sollievo?
Con tranquillità. Vivo il mio rapporto con la stampa e con il cinema senza sentirmi braccata.
Però quando si è separata da Vincent Cassel, ha dovuto dettare un comunicato all’Ansa.
Tengo alla mia vita privata, cerco di farla rispettare senza che le speculazioni la divorino. Fu solo un modo come un altro di essere chiara e trasparente.
È scesa dalla scaletta dell’aereo ma ha continuato a lavorare molto. Tra pochi giorni la vedremo nei panni della Bond girl in Spectre e tra qualche mese al centro del prossimo film di Emir Kusturica.
Con Emir giro da tre anni. Dovremmo terminare a fine novembre, ma il condizionale è d’obbligo.
Si aspetta un capolavoro?
Chi può dirlo? Lavorare con Kusturica è stato interessante. Ho visto il processo di lavorazione di un grande regista, ho provato a capirlo, ho osservato il pittore riempire la tela: oggi un po’ di rosso, domani un po’ di giallo, dopodomani un tocco di blu. A poco a poco la tela si è riempita. È diventata un quadro.
Nel film di Kusturica ha lavorato di improvvisazione?
Non mi ha dato un foglio bianco per poi dirmi “vedremo” se è questo che intende. Mi ha spiegato cosa voleva fare e poi naturalmente, essendo un artista, ha fatto anche altro esplorando le direzioni più diverse.
A 51 anni Monica Bellucci si sente a un bivio?
Come in Malèna, c’è sempre un bivio, un momento, un passaggio della propria vita che determina il destino delle cose. Ora è presto, ma quando sarò vecchia riguarderò il mio cinema e capirò che se ho compiuto certe scelte l’ho fatto perché mi trovavo in un periodo particolare della mia vita.
Ha detto che gli uomini l’hanno fatta soffrire. A guardare le sue storie d’amore note, soltanto tre in trent’anni, si scorge però una monogamia di fondo. Una certa stabilità. È sicura di aver sofferto così tanto?
Dice? (Ride). Credo di aver amato gli uomini e di esserne stata anche molto amata. Sono stata soprattutto molto indipendente. Può immaginare quanto sia stato difficile farlo accettare agli altri?