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 2015  ottobre 26 Lunedì calendario

I ricchi sazi e tranquilli, i poveri disperati e in fila davanti ai negozi: questo l’inevitabile finale del socialismo chavista, in un Venezuela ormai sull’orlo del fallimento. L’inflazione è talmente alta che per cambiare in bolivar 200 dollari conviene portarsi dietro uno zaino

«Dov’è lo zainetto?». Lo straniero appena arrivato a Caracas guarda perplesso l’uomo del cambio, in un corridoio appartato dell’hotel, dopo avergli allungato con imbarazzo due banconote da 100 dollari. «Uno zainetto, una borsa, come fai a portar via tutti i soldi? Sono varie migliaia di biglietti, amigo...». Socialismo del XXI secolo in Venezuela, il Paese che non ha più una moneta, ma una valanga di carta ormai straccia che passa di mano in mano, vale ogni giorno meno, disintegra stipendi e risparmi della povera gente, mentre i ricchi e i gringos la sfangano perché hanno in tasca i soldi giusti. Bel risultato per il sogno chavista, il bolivar sprofondato a 700 contro il dollaro (era 10 a 1 appena tre anni fa), i prezzi dei prodotti che ancora si trovano sugli scaffali mentre salgono senza fermarsi, gli stipendi che servono solo a comprare cose difficili da trovare. Inevitabile e tragico finale per il sistema inventato da Hugo Chávez e lasciato in mano a successori ancora più incompetenti. Basti pensare che il presidente Nicolas Maduro ha nominato all’economia un suo amico generale dell’esercito.
Evidenza negata
Importante per il regime è negare l’evidenza, almeno finché vi sarà ancora qualcuno che ci crede. Per il regime il cambio «nero» del bolivar è immaginario, quelli ufficiali vanno da 6,3 a 200. Resta il fatto che la banconota più alta in circolazione (100 bolivares) vale meno di 10 cent di euro e da sola non compra nulla, ma non se ne stampano altre per orgoglio (da cui la necessità dello zainetto). Dell’inflazione non si forniscono più dati da tempo, ma i prezzi stanno raddoppiando ogni sei mesi.
Quest’anno in Venezuela il Pil crollerà di almeno il 10 per cento. In parte è colpa del prezzo del petrolio, del quale il Paese vive: il resto è da imputare a un sistema dove non funziona più nulla e i prezzi sono una variabile impazzita dell’economia. «Da anni gli oppositori ammonivano che il Venezuela sarebbe diventata una nuova Cuba. Ma si pensava al partito unico, il collettivismo chissà. Invece ci siamo arrivati per via macroeconomica: da un mese il salario minimo venezuelano è sceso sotto i livelli di quello cubano», fa i conti un imprenditore che fa la spola con Panama.
Mezzo Venezuela difatti guadagna circa 7.500 bolivares al mese. Sono meno di una decina di euro al cambio nero. D’accordo, ma i prezzi? Se si considerano quelli regolati dal governo, su un paniere di merci abbastanza grande, il potere d’acquisto di questi 7.500 bolivares sarebbe appena sufficiente a sopravvivere. Il problema è che questi prodotti si trovano a intermittenza e solo a costo di file immense.
Come a Cuba sì, ma vent’anni fa, perché adesso sull’isola c’è più offerta che qui. In questi giorni, per esempio, dagli scaffali di Caracas è sparita del tutto la carne bovina. C’è solo pollo e maiale (poco) mentre sono abbondanti le uova. Se si vuole la carne c’è sempre un mercato libero, non controllato, ma per un chilo serve una settimana di stipendio. È sparita l’acqua minerale gasata, c’è solo la soda. Finita da tempo anche la pasta di produzione nazionale (in Venezuela se ne mangia molta). C’è la De Cecco nei negozi buoni di Caracas: un’altra settimana di stipendio. I ricchi e quelli con i dollari in tasca non hanno problemi. Esattamente come a Cuba. Sono i miracoli del socialismo. Il resto è fila. Fuori i supermercati se ne formano fino a due isolati. Vi partecipano coloro il cui numero finale della carta d’identità corrisponde al giorno della settimana. Per evitare, si dice, accaparramenti. Un giorno arriva la carta igienica, l’altro l’olio e la farina. Se ti va male con il numerino ti arrangi o fai scambio con qualcuno.
Il caso delle batterie
La fila più surreale di Caracas è quella per le batterie auto a prezzi sussidiati, alla fabbrica Duncan, nazionalizzata da Chávez. L’attesa dura due-tre giorni e devi dormire in macchina. La quale deve avere una batteria per arrivare lì, quindi te la devi far prestare da qualcuno. La benzina invece non è mai un problema e il traffico un inferno. In Venezuela è sempre stata quasi gratis e ora il pieno di una utilitaria costa l’incredibile cifra di 3 centesimi di euro. Ma il governo non ha ancora trovato il coraggio di aumentare i combustibili nonostante il buco che provoca nelle casse dello Stato sia enorme.
Una delle file più tristi si vede invece al Sambil, il centro commerciale di lusso. A fianco alle Adidas da cinque stipendi c’è una farmacia comune, dove la gente si mette in fila perché sono arrivate medicine che possono significare la sopravvivenza di un familiare. Delle storie di persone che muoiono per mancanza di farmaci è pieno il Paese. Come i cubani incolpano per tutto l’embargo Usa, il governo di Nicolas Maduro si è inventato la guerra economica, cioè un presunto attentato dell’oligarchia che manipola i prezzi e fa sparire la merce. In realtà quel poco che è rimasto di imprenditoria privata in Venezuela è sotto il controllo dell’esercito. Il problema è che non si produce più quasi nulla in Venezuela, bisogna importare tutto e lo Stato vive perennemente a corto di dollari. I debiti contratti con aziende brasiliane per far arrivare pollo, farina e uova nel Paese sono arrivati a livelli tali che molte forniture si sono interrotte. Tutto il traffico della carne è in mano ad un generale, ovviamente amico del governo. Quando l’incubo finirà è difficile saperlo, a dicembre si vota per il Congresso e il governo è nel panico. Prima, però, potrebbe arrivare il default sul debito.