Libero, 26 ottobre 2015
Da un cono al melone fino alla Grande Mela: la parabola delle gelaterie Grom raccontata dal suo co-fondatore Guido Martinetti
Mettetevi comodi. Meglio se con una coppa di gelato, magari Grom. La condizione ideale per gustare la storia di Guido Martinetti e del suo amico Federico Grom, i gelatai di piazza Paleocapa, cuore di Torino, che stanno facendo il loro ingresso in Unilever, la multinazionale che da tempo immemorabile domina gli scaffali dei supermercati di mezzo mondo. Una storia esemplare perché, assicura Martinetti, il bello deve ancora arrivare: la combinazione tra il colosso e la piccola multinazionale tascabile potrebbe segnare la formula per non dissipare i frutti seminati, in giro per il mondo, con il successo dell’Expo. Parola a Martinetti, faccia d’angelo che dimostra assai meno dei suoi quarant’anni. E che di certo non si vuol fermare ai 67 (sessantasette) punti di vendita attuali.
La prossima tappa?
«Hong Kong. Ma adesso ci fermiamo un attimo per capire il potenziale della nuova collaborazione».
La domanda è d’obbligo: non avete tradito un certo spirito cedendo il controllo ad una multinazionale?
«Una premessa: non intendo per ora parlare dell’accordo con Unilever. Lo faremo a suo tempo, quando avremo definito tutti i dettagli che porteranno il gelato Grom in giro per il mondo. Ma, dal punto di vista dei princìpi, credo che le multinazionali siano vissute, in Italia, con pregiudizio negativo. In realtà questi gruppi sono fatti di uomini. In queste settimane sono approdati a Torino diversi manager estremamente preparati. Hanno molto da insegnarci in materia di sviluppo del brand, di tecnologie, di produzione e di mercato».
Inizia la colonizzazione?
«Tutt’altro. Ma perché dovrebbero investire dei soldi per azzerare la nostra esperienza? Anzi, in questi incontri abbiamo condiviso l’interesse per l’agricoltura e per la qualità delle materie prime. C’è grande voglia di riscoprire la filiera agricola e i rischi che si corrono se non si rispetta la terra. Lo sa cosa disse Saint Exupery? Non ereditiamo la terra dai ostri avi, ma l’abbiamo in prestito per i nostri figli. Se ne sono resi conto anche i leader dell’economia globale: non esiste sviluppo se questo non è sostenibile a lungo termine».
L’Italia se l’è dimenticato.
«Per un bel po’ sì. Ora, per fortuna, stiamo tornando indietro. Certo, la Francia è meglio».
Davvero?
«Guardate la protezione offerta allo Champagne rispetto al Parmigiano o altri prodotti tipici di casa nostra. Stiamo migliorando ma non dimentichiamo che i primi capitolati sui Premiers Crus di Bordeaux risalgono al 1855. All’epoca l’Italia unita non esisteva ancora. Ma dalla Francia dobbiamo imitare anche altro».
Cioè?
«Coltivare la terra, in Francia, è un mestiere nobile. In Italia per fortuna sta tornando ad esserlo. L’orgoglio per il proprio lavoro è fondamentale. Grazie al boom del vino, a partire dalla fine degli anni Novanta, il mestiere della terra sta riguadagnando posizioni. Grom si impegna per estendere questa tendenza ad altri comparti dell’attività agricola».
Ma come ci siete arrivati? Quando è scoccata l’idea buona? Voi fino al 2002 non vi siete mai occupati di gelati. O no?
«Assolutamente no. Il primo ingrediente è stata l’amicizia tra me e Federico. Ci siamo conosciuti quando entrambi, per assolvere al servizio militare, facevamo gli accompagnatori ai disabili di guerra e dormivamo al distretto».
All’epoca lei studiava enologia?
«Ero già ossessionato dalla ricerca della qualità assoluta. Il mio mito erano le vigne di Angelo Gaia. Non so quante volte ho visitato la vigna di San Lorenzo».
E il gelato?
«Un incontro quasi casuale. Una mattina, su La Stampa, ho letto un articolo di Carlo Petrini di Slow Food dedicato a una gelateria di Orvieto. Non c’è più nessuno, scriveva Petrini, che sappia fare un buon gelato. Grazie a quell’articolo la mia vita è cambiata».
Perché?
«Ho convinto la mia ragazza a fare le vacanze ad Orvieto, che ha una cattedrale stupenda. E siamo andati in gelateria: lei ha preso un cono yogurt-melone, gusti da donna, insomma. Ma quando ho assaggiato il melone sono rimasto folgorato: quello era vero melone, non un surrogato liquoroso o dolciastro. Perché non replicare su larga scala la ricerca degli ingredienti veri? Tornato a Torino ne ho parlato subito con Federico».
E lui?
«Si è messo all’opera per elaborare un business plan. Oddio, messa così sembra un’operazione da grande azienda. In realtà, per partire, abbiamo investito 65mila euro in due, quel che ci serviva per aprire il primo negozio».
Ad anticipare i soldi, leggo, sono stati i genitori.
«Ah no, qui m’arrabbio. I miei 32.500 euro derivano da un prestito personale erogato da Banca San Paolo, rimborsabile in 60 mesi. Per cinque anni ho pagato tutti i mesi 595 euro. E certe volte non è stato poi così facile. Ma non rimpiango nulla. Anzi, rispettare gli impegni mi ha insegnato una certa disciplina».
Perché s’arrabbia?
«Perché c’è sempre un’ombra di invidia in certe osservazioni. Sono arrivati a dire che dietro di noi c’erano i capitali di Lapo Elkann. Per carità: nulla contro, ma io Lapo non l’ho mai visto una sola volta in vita mia».
Un’altra cosa che la fa arrabbiare.
«Il fisco. Anzi, l’evasione fiscale: più volte non siamo riusciti a prendere un negozio perché si è presentato qualcuno che aveva da riciclare del nero. E mi sembra assurdo che un’azienda che reinveste tutti i profitti nella crescita e nell’occupazione non goda di alcuna attenzione».
Non avete incassato dividendi. Ma che stipendi vi siete passati?
«Io e Federico? Da 4 anni settantamila euro (lordi) a testa, prima molto meno».
E le ferie?
«Quindici giorni all’anno. Più le domeniche che spesso passo nella nostra azienda agricola, Mura Mura. Ma questo è un piacere oltre che un lavoro».
Forse esagera a dire che quelli di Grom sono «i migliori gelati del mondo».
«Mai detto: io dico un’altra cosa: ogni mattina mi alzo con l’obiettivo di fare i gelati migliori del mondo sotto il profilo della qualità. Non è detto che a tutti piacciano, ma non permetto di mettere in discussione il nostro impegno».
Dopo il vostro accordo con Unilever avrete perduto qualche simpatia. Penso ai fautori del chilometro zero.
«Quella è una gran fesseria, può funzionare per l’insalata o qualche ortaggio. Ma non il Parmigiano o il Barolo. E nemmeno per i pomodori».
O il gelato…
«Il meccanismo, in sintesi, è semplice. La produzione del gelato prevede tre passaggi: l’acquisto delle materie prime, la loro miscelazione e la mantecazione, che viene effettuata presso i punti vendita. Questo processo ci consente di gestire la qualità controllando le deviazioni standard, cioè l’assenza di errori. Vale per il gelato, vale per un Big Mac. L’incapacità di gestire questo aspetto è da sempre uno dei limiti dell’alimentare italiano: non siamo stati in grado di imporre nel mondo, a livello retail (negozi sulla strada, ndr) un marchio italiano per la pizza. O per il caffè, anche se ci sono segnali di risveglio».
Il made in Italy ha enormi spazi di crescita. O no?
«Senz’altro, questa è una terra benedetta. Non è facile, seppur non impossibile, che Apple nasca in Italia. Ma è altrettanto difficile creare Grom in Cina, lontano dai distretti italiani dell’agricoltura di qualità. Però è vero: gli spazi sono enormi: oggi, ai tempi dell’economia globale, posso scaricare un file video a migliaia di chilometri. Ma un consumatore in Cina, per ricco che sia, non può gustare un buon sorbetto al lampone. Tocca a noi colmare questo gap».
Obiezione: la corsa alla qualità farà lievitare i prezzi. O no?
«Non è detto. In realtà il problema è riconoscere il giusto prezzo alla qualità migliore, a vantaggio degli agricoltori. Poi seguono gli altri prodotti».
Voi di Grom avete gettato il cuore oltre l’ostacolo. A New York per esempio.
«In assenza di quattrini abbiamo usato la fantasia: abbiamo spedito ai giornalisti un pacchetto con un torroncino, un biscotto di meliga ed un gianduiotto, più una coppetta vuota. E abbiamo scritto: vuoi gustare con noi il gelato italiano, fatto con i migliori ingredienti? Il New York Times ci dedicò una pagina con foto».
Un trionfo, insomma.
«In parte sì. In realtà non eravamo maturi per un’impresa del genere: non sapevamo muoverci con le dogane o scegliere i professionisti giusti».
Per fortuna adesso c’è Unilever. Vero?
«Da questo punto di vista sono più rilassato. È straordinaria la prospettiva di affidare a veri professionisti le questioni burocratiche e tecniche e di concentrarci sui mestieri che ci appassionano: Federico potrà lavorare alla scelta delle migliori posizioni per i nuovi negozi. Io potrò gestire le attività agricole, che sono il vero cuore della nostra azienda e non solo».
Ma davvero pensa che ad una multinazionale interessi l’agricoltura di qualità ecosostenibile?
«Ormai sono gli azionisti a chiederlo. Un errore in questa materia non è più consentito. Un tempo si chiedeva al manager solo il risultato economico. Oggi i fondi ed i singoli investitori chiedono assai di più. E guai a sbagliare. La cosa più importante è essere onesto e credibile».
Lo ripeterà anche a Stanford? Sappiamo che è stato invitato a parlare a Stanford, dove era di casa Steve Jobs.
«Lo ripeterò anche agli studenti di Stanford, sì. Ma per favore, andiamoci piano con questi paragoni».
Vero, ma sembra un segno del destino che questa avventura nata con un gelato al melone debba prima o poi incontrare l’ombra della Mela.