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 2015  ottobre 25 Domenica calendario

Morire all’Opera. Donne stroncate dalle malattie e uomini che s’ammazzano tra di loro. Analisi di una carneficina da palco

In sala da concerto non si muore quasi mai. Capita, d’accordo, ma i casi sono davvero rari: si ha a che fare con la vecchia signora negli strazianti Kindertotenlieder (Canti per i bambini morti) di Mahler, si segue un dialogo tra la morte e una fanciulla nell’omonimo quartetto di Schubert (che però cita il tema di un Lied), si guardano le anime delle vittime salire in paradiso dopo l’incidente ferroviario de Un petit train de plaisir di Rossini, si piange nella Trenodia per le vittime di Hiroshima di Penderecki e magari ci si commuove davanti ai Crisantemi (per quartetto d’archi) di Puccini. Ma, badate, un elenco completo sarebbe comunque poca cosa, soprattutto se lo si compara con la strage che emerge allineando le vittime dell’opera. 
Perché all’opera si muore, spessissimo, ponendo peraltro da sempre fastidiosi problemi a librettisti, compositori e registi: la faccio vedere, l’uccisione? O la prevedo fuori scena? Ma se la mostro, devo cercare il realismo? Oppure no, perché fa troppo splatter, ed è meglio rappresentarla con qualcosa di simbolico, pulito, allusivo? 
La questione nasce, ovviamente, dall’incontro tra musica e vita. Perché fino a che si scrivono sinfonie, trii e sonate, si possono tenere i pentagrammi al sicuro, nel perfetto altrove in cui adoriamo abitare quando scriviamo, suoniamo, ascoltiamo musica classica. Ma quando decidiamo di cimentarci nel teatro musicale casca l’asino, perché qualunque storia, per fantastica e inverosimile che sia, prima o poi si imbatte nel nostro essere umani, e di lì a parlare di morte il passo è breve. 
Chiaro che allora si deve morire nel modo socialmente adeguato, e basta guardare i dati statistici per trovare conferma dei nostri più abusati preconcetti (quello dell’opera è un mondo maschilista ed arretrato, si sa). Le donne, nell’immaginario lirico, sono infatti debolucce, e si ammalano facilmente, come dimostrano Violetta, ne lla Traviata, e Mimì, nella Bohème, che vanno a morire di tubercolosi, mentre uomini stroncati da malattia non sono presenti nel campione analizzato. Le signore, poi, come si sa, hanno un sistema nervoso delicato e, davanti ai complicati pasticci messi in opera dai vari mariti e fidanzati e padri e fratelli, l’unica soluzione per loro è impazzire, e andarsene così. Pensate a Lucia di Lammermoor, che viene costretta a sposare il marito sbagliato, lo uccide con una spada (niente meno!) ma poi non regge lo shock, e dà di matto; va detto, dopo averlo saputo, si ucciderà anche il di lei fidanzato, Edgardo, ma lui lo farà virilmente, trafiggendosi con un pugnale (uomini d’altri tempi…). E pensate anche a Lady Macbeth, che nell’opera di Verdi muore perché travolta dal rimorso per le proprie macchinazioni, mentre il marito, impavido, regge ottimamente una serie di omicidi e viene poi fatto fuori dalla lama del suo nemico.
Per non parlare dei coccoloni (nel grafico: shock) che portano alla tomba le povere cantanti: basti per tutte la wagneriana Elisabeth, che aspetta Tannhäuser, andato niente meno che dal Papa per farsi perdonare alcune intemperanze; quando non lo vede nel gruppo di pellegrini di ritorno in Turingia ci rimane così male che di lì a poco defunge, e tanti saluti. 
Anche gli uomini muoiono, beninteso, ma lo fanno in modo eroico. Tendenzialmente si uccidono tra loro, con un bel 68% di assassinii a risolvere la faccenda. E però, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è sempre una faccenda di duelli per amore che devono risolvere la contesa tra un tenore e un baritono innamorati dello stesso soprano. I duelli ci sono, certo: pensate a Don Giovanni che trafigge il Commendatore sceso a difendere l’onore della figlia (e in quel caso, beh, non si tratta propriamente di amore…); oppure ad Alfio che ammazza Turiddu in Cavalleria rusticana, secondo i più stretti canoni del delitto d’onore. Ma, a rimpolpare le statistiche, servono di più i delitti multipli, legati a questioni di potere, come in Tristano e Isotta, dove gli avversari si uccidono a vicenda, o nel citato Macbeth; mentre a cavallo tra amore e potere va collocata l’uccisione di Mario Cavaradossi nella Tosca, dove il suo aguzzino Scarpia mirava sia al proprio antagonista politico che alla sua fidanzata, e così ne organizza la fucilazione (che nel 1995, in una recita allestita allo Sferisterio di Macerata, si risolse nel clamoroso incidente occorso al povero tenore Fabio Armiliato il quale, per errore, nel momento fatale si beccò una vera pallottola in un piede, trovandosi a mormorare sul palcoscenico: «Aiuto, qui mi colpiscono sul serio»). 
E la musica? Come si comportano i compositori nel far defungere i propri personaggi? Alcuni la mettono giù pesante: l’angoscia che ti prende nella Carmen mentre Bizet sta conducendo verso l’omicidio della protagonista è degna della più efficace colonna sonora di thriller hollywoodiano; dopo di che, una coltellata e via, ancora pochi istanti e poi sipario, e tutti ancora con il cuore in gola, senza il tempo non dico di elaborare il lutto ma almeno di stemperare un po’ la tensione. Wagner invece, sostenuto da una visione più ampia dell’esistenza, da un collegarsi di realtà e mitologia che prevede orizzonti temporali lunghi, per far defungere Isotta impiega vari minuti nei quali il languore si mescola alla dolcezza, e tutto è meravigliosamente consolatorio, accettabile, naturale. Non sembra nemmeno che muoia, verrebbe da dire. 
Ma non è questione di velocità, naturalmente: ci si può avvicinare al realismo anche prendendosi il proprio tempo per fare le cose. Abigaille, nel Nabucco, si avvelena e ha tutto l’agio per morire con una certa calma; e però, in quei minuti, Verdi allestisce un perfetto arco di tensione, che segue il canto spezzato dell’eroina, fa sussultare lo spettatore a ogni frase, e rende la morte in scena terribilmente reale (e forse persino un po’ catartica). E Puccini, nella Bohème, prepara adeguatamente la dipartita di Mimì, ammalata, con l’equivalente musicale di un abbassamento delle luci, sino a far tacere l’orchestra e le voci, prevedendo che Rodolfo non canti ma parli negli instanti in cui sospetta che la sua amata sia ormai defunta, e che la musica possa tornare, straziante, soltanto dopo che la morte sarà stata toccata con mano. Meraviglioso.